23 anni fa, l’omicidio di Serena Mollicone scosse le cronache italiane con un bagaglio di interrogativi che, nel tempo, si sono irrobustiti senza mai risolversi completamente. Ancora oggi, il delitto di Arce è un caso irrisolto e il perché, secondo i giudici che hanno assolto gli imputati nel processo di secondo grado pochi mesi fa, è insito nell’assenza di prove certe di colpevolezza. Non ci sono elementi, stando all’analisi della Corte d’Assise d’Appello di Roma, per dire se chi è finito alla sbarra sia davvero coinvolto nella morte della 18enne e mancherebbe un preciso movente. Impossibile, secondo le sentenze finora emesse, arrivare a una condanna scevra di dubbi. Serena Mollicone sparì il 1° giugno 2001 ad Arce, in provincia di Frosinone, e il suo cadavere fu trovato due giorni più tardi in un bosco di Fonte Cupa all’Anitrella, a qualche chilometro di distanza, in condizioni che inequivocabilmente aprirono alla pista omicidiaria. La 18enne aveva la testa infilata in un sacchetto di plastica, chiuso con del nastro adesivo, le mani e i piedi legati con del fil di ferro. Secondo l’autopsia, morì per asfissia e la sua agonia sarebbe stata lenta. Chi ha ucciso Serena Mollicone? Anni di indagini e processi non hanno sciolto i nodi chiave del giallo.
Omicidio Serena Mollicone, il processo a Carmine Belli
Dopo la morte di Serena Mollicone, qualcuno riferì di averla vista litigare con un ragazzo biondo davanti a un bar. Il testimone è il carrozziere Carmine Belli, poi finito a sua volta al centro dell’inchiesta, arrestato, processato e infine assolto.
Stando al racconto dell’uomo, che trascorse 18 mesi in carcere da innocente, il giovane con cui Serena Mollicone si trovava prima della scomparsa sembrava compatibile con Marco Mottola, figlio dell’allora comandante della caserma di Arce, Franco Mottola. Nel 2003, Belli fu rinviato a giudizio per l’omicidio e poi venne assolto in tutti i gradi di giudizio con sentenza definitiva emessa nel 2006.
Il racconto di Santino Tuzi su Serena Mollicone nella caserma di Arce
Secondo la famiglia della vittima, Serena Mollicone voleva denunciare lo spaccio di droga ad Arce e in particolare proprio il figlio del comandante, Marco Mottola. È per questo che il 1° giugno 2001, stando a questa ricostruzione, la 18enne si sarebbe recata in caserma. Lo stesso luogo in cui il brigadiere Santino Tuzi l’avrebbe vista entrare quel giorno senza però vederla uscire.
Santino Tuzi sarebbe morto suicida in auto, sparandosi con la pistola d’ordinanza, appena pochi giorni dopo aver rivelato quella circostanza agli inquirenti. Il suicidio fu inizialmente attribuito al fatto che avesse una relazione extraconiugale, ma per i familiari avrebbe un legame con la vicenda di Serena Mollicone. Le dichiarazioni di Tuzi allora furono ritenute inattendibili, ma per l’accusa poi formulata a carico dei Mottola sarebbero state invece il resoconto di reali accadimenti. È così che la caserma di Arce piombò al centro del giallo.
Omicidio Serena Mollicone, i processi a carico dei Mottola e i carabinieri Quatrale e Suprano
Nel 2011, la famiglia Mottola – Franco, la moglie Annamaria e il figlio Marco – fu formalmente accusata di omicidio volontario e occultamento di cadavere nell’ambito dell’inchiesta sul delitto di Arce. Per l’accusa, il giorno dell’omicidio Serena Mollicone avrebbe litigato con Marco Mottola (qui tornò la testimonianza di Carmine Belli) e poi si sarebbe recata in caserma dove la lite si sarebbe riaccesa. Marco Mottola, secondo l’accusa, l’avrebbe sbattere contro una porta. I periti del tribunale avrebbero riscontrato una compatibilità tra il buco riscontrato sull’infisso e la lesione sul cranio della vittima. Per i magistrati, la porta sarebbe l’arma del delitto.
Per gli inquirenti, Franco Mottola avrebbe fatto di tutto per coprire il figlio e cancellare ogni traccia. Nel 2020, la famiglia dell’ex comandante dei Carabinieri di Arce fu rinviata a giudizio. Imputati anche il carabiniere Vincenzo Quatrale – che sarebbe stato con il brigadiere Santino Tuzi quel 1° giugno 2001 e che inizialmente sarebbe stato accusato di istigazione al suicidio – e il collega Francesco Suprano (accusato di favoreggiamento). In primo grado, assoluzione per tutti i cinque imputati così come in appello. Secondo i giudizi, mancano prove certe che possano portare a una sentenza di condanna “oltre ogni ragionevole dubbio”. Un esito contro cui la famiglia della vittima e la Procura generale hanno deciso di fare ricorso.