Ci sono 300 progetti in 42 Paesi del mondo. Quest’anno, però, la campagna Tende di AVSI per la raccolta dei fondi necessari a sostenere queste attività punterà ad aiutare i progetti educativi in Libano, Ucraina, Ecuador, Palestina, Camerun e Uganda. In tutti questi Paesi, l’attenzione fondamentale è per l’educazione, e l’obiettivo è quello di infondere speranza in luoghi in cui la realtà della guerra o i gravi problemi sociali rischiano di indurre alla rassegnazione.
Stefania Famlonga, responsabile della Fondazione Sembrar, nata all’interno della famiglia AVSI, lavora in Ecuador. Racconta al Sussidiario una di queste realtà: quella delle invasiones di Quito, le favelas dove il narcotraffico ha portato la legge della violenza, in cui gli omicidi sono all’ordine del giorno. Proprio qui Sembrar dà speranza a 250 giovani e alle loro famiglie.
Che progetti state sviluppando per i giovani a Quito?
Siamo una fondazione ecuadoriana che si chiama Sembrar, vuol dire seminare. Siamo nati da un progetto di AVSI, con la quale abbiamo un legame molto stretto, tanto che ci occupiamo con loro anche di 900 adozioni a distanza. Abbiamo una storia di 20 anni di lavoro nei quartieri periferici della città di Quito: all’inizio eravamo, appunto, un progetto di AVSI, poi, dal 2007-2008, ci siamo organizzati in una fondazione locale. Lavoriamo in questi quartieri marginali, nelle favelas, che qui si chiamano invasiones: stiamo parlando di aree di circa 100mila abitanti che si sviluppano sulle pendici delle colline intorno alla vallata in cui si trova Quito.
Come sono nati questi quartieri?
Normalmente hanno una storia che risale a trent’anni fa. Si tratta di terreni occupati da persone provenienti da tutto il resto del Paese in cerca di un luogo dove costruire la propria casa per iniziare la loro vita nella grande città. Le abitazioni sono baracche che le persone costruiscono con le loro mani, di pochi metri quadrati, dove vivono anche famiglie numerose. Case senza tavoli, solamente con i letti. Nei quartieri non ci sono i servizi base: niente fognature e neanche strade asfaltate. Ora c’è anche un problema di acqua, che a Quito manca molto spesso. Da un paio di mesi ci sono problemi pure con l’elettricità: per molte ore al giorno manca la luce.
Al di là del grave disagio provocato da queste carenze, come si vive nelle invasiones?
Sono quartieri caratterizzati da molta violenza. È sempre stato così. Segnati dal narcotraffico e dove girano le armi. Nell’ultimo anno e mezzo la situazione è peggiorata. Qui, come in tutto il Paese, si è intensificato il fenomeno della violenza urbana, legata proprio al narcotraffico. Una lotta tra bande, normalmente non ecuadoriane, che coinvolge la mafia albanese, la ’ndrangheta e altre ancora: ci sono le mafie messicane, colombiane. Sono lotte per il controllo dei territori in cui sono coinvolti molti giovani, compresi minorenni.
Le mafie reclutano i ragazzi in questi quartieri?
Esatto. Un fenomeno molto presente in tutta la regione costiera dell’Ecuador, da dove partono le grandi navi che trasportano la droga, che però adesso ha preso piede a Quito e anche in altre zone. E il nostro quartiere, Roldòs Pisulì, è diventato quello più violento della città: i tassisti hanno paura di venire qui, stessa cosa per gli autobus.
Le organizzazioni criminali come coinvolgono i ragazzi?
È un fenomeno nuovo, al quale non eravamo preparati, ancora da capire. Quello che sappiamo sul reclutamento è che dapprima vengono avviati all’uso della droga, poi, a poco a poco, chiedono loro anche di uccidere. Li fanno “lavorare” per loro per pagarsela. Quello che si intuisce è questo. L’Ecuador era solo un Paese di passaggio della droga, non di consumo. Invece, in questi ultimi anni è cambiato, diventando anche un luogo di produzione.
La vostra attività con i ragazzi, quindi, è cambiata in questi vent’anni?
Il nostro lavoro è sempre stato con i ragazzi. Siamo un centro educativo, una struttura su due piani con molte aule, confortevole. Una grande casa dove svolgiamo attività con i più piccoli, ma dove abbiamo sviluppato anche percorsi per insegnare ai genitori a fare i genitori: puntiamo sulla famiglia. Da oltre dieci anni abbiamo cominciato con i giovani dai 12 ai 18 anni. Con loro il nostro intervento è ancora legato allo studio, ma anche al lavoro e al tempo libero. Siamo un doposcuola, con spazi e servizi (offriamo il collegamento a internet) pensati per questo, che i ragazzi nelle loro case non hanno. Specialmente nel fine settimana educhiamo all’uso del tempo libero, con uscite per andare in montagna o nei musei. Oppure organizziamo giochi e feste nel centro. Ci occupiamo dei centri estivi, in realtà tenuti tre volte all’anno nei periodi di vacanze scolastiche.
I ragazzi vengono aiutati anche a scegliere una professione e a trovare lavoro?
Qui anche nelle scuole non c’è attenzione per l’orientamento vocazionale. Noi cerchiamo di farlo fuori dall’orario scolastico con giovani che frequentano le superiori. Visitiamo le imprese, ci sono giornate in cui si può imparare a fare gli elettricisti, ma anche a cucinare o altro: si imparano i mestieri. Pochi hanno la possibilità di andare all’università. Noi diamo l’opportunità di avviarsi a una professione anche per aiutare a scegliere dei corsi dopo le scuole superiori. Facciamo corsi professionali anche per chi ha più di 18 anni. In tutto, le nostre attività si rivolgono a 250 giovani, ma tutti gli anni a 50 di loro offriamo tre percorsi di formazione professionale: in gastronomia, in meccanica e in tecnologia. Tutto in collegamento con le imprese, con molta pratica da svolgere in cinque mesi.
Che difficoltà incontrate nel realizzare tutto questo? Quali sono gli ostacoli che dovete superare?
Non è facile lavorare con le istituzioni: è un Paese statalista e non esiste il principio di sussidiarietà. È difficile che riconoscano il nostro lavoro. È anche il motivo per cui abbiamo sempre bisogno di risorse: non è previsto che lo Stato finanzi attività come queste. Noi facciamo un grande lavoro con i bambini fin da piccoli e con le famiglie si è sviluppata una fiducia, siamo loro alleati. Certo, la situazione del quartiere fa sì che ci siano delle resistenze a uscire di casa: hanno paura. Per questo stiamo ragionando su come fare in modo che le famiglie e i giovani vengano insieme. D’altra parte, si è molto accentuata anche la delinquenza comune. Questo è il problema più grave con il quale ci stiamo confrontando.
Come agite per scongiurare il pericolo che i ragazzi entrino nelle bande?
Per loro è un’opzione molto concreta: dobbiamo lavorare molto sul dialogo, per cercare di capire certe scelte. Il nostro è un lavoro molto personalizzato: quello che offriamo fondamentalmente sono spazi accoglienti e persone adulte che siano degli esempi, dei modelli. I nostri sono tutti giovani che spesso non hanno il papà, mentre la mamma è occupata con il lavoro: i nostri educatori sono persone che possono aiutarli a tirare fuori il meglio di loro.
Qual è la realtà delle famiglie che vivono nel quartiere?
In generale, sono famiglie disgregate, molto spesso con donne sole, abbandonate dai loro mariti. Molti dei nostri giovani non hanno avuto i papà, per questo hanno bisogno di figure educative significative. Le donne spesso lavorano nel campo delle pulizie e i padri, quando ci sono, fanno i muratori. Spesso i ragazzi crescono con i nonni. Noi facciamo molto lavoro di formazione perché alla fine quello che vogliamo offrire sono dei modelli, degli esempi, per aiutare a sperare in un futuro che possa essere migliore. Il grande problema qui è la rassegnazione.
(Paolo Rossetti)
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