La scuola è allo sbando, in Italia? Forse ancora no, per fortuna, ma certamente è disorientata. E questo nonostante l’introduzione recente del docente orientatore e tutor, la cui ricaduta didattica è ancora da verificare sul campo in termini di benefici di apprendimento per gli studenti. Sembra un paradosso: mentre si moltiplicano le iniziative per infarcire la scuola italiana con novità come la didattica orientativa, l’educazione civica e l’ex alternanza scuola-lavoro ora ridenominata PCTO, non manca chi propone di trasformare i docenti sottopagati e perlopiù frustrati se non picchiati (basta vedere i recenti fatti di cronaca) in psicologi fai-da-te, per uso e consumo di adolescenti sempre più in balia dei social media. La proliferazione di “educazioni” aggiuntive ha varie conseguenze, di cui sembra ci si ostini a ignorare la portata.
L’università italiana, che sempre di più si è organizzata sul format socio-pedagogico della licealizzazione, continua ad aumentare, per le matricole, i corsi di recupero, che si chiamano Obblighi Formativi Aggiuntivi (OFA), su competenze di base come comprensione del testo, scrittura, matematica, biologia e così via. E il motivo è semplice: molti che escono da 13 anni di scuola sono asini! È un fatto certificato anche dalle rilevazioni internazionali e le prove INVALSI somministrate durante gli anni di scuole parlano chiaro.
Ci si potrebbe perdere nella babele di analisi e ricette per trovare una soluzione alle lacune degli studenti, anche perché ogni scuola che rispecchia un territorio ha specifiche peculiarità, che devono essere tenute in dovuta considerazione nelle generalizzazioni. Ma una soluzione ci sarebbe: i docenti devono tornare a fare i docenti, ovvero insegnare la propria materia, per la quale hanno studiato seriamente (e almeno finora, l’università italiana non si è ancora troppo sdoganata al ribasso). Ho provato a leggere le recenti Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica, un vanto del ministro Valditara. Si osanna nel documento il concetto di trasversalità e interdisciplinarità delle materie: ma che significa concretamente, al di là dei mirabolanti paroloni del pedagogichese di matrice ministeriale? Non solo: a breve potrebbero essere inserite pure le soft skills nel ginepraio di ciò che va accumulandosi nel fiume della scuola. Tutta acqua che rischia di esondare e allagare tutto. Va poi detto che tutte queste aggiunte, accomunate dal proposito di costruire e raffinare nuove “competenze”, sono in un modo o nell’altro destinate a trasformarsi in altre scartoffie, suddivise tra istruzioni per l’uso, raccomandazioni e rendicontazioni, che fanno perdere tempo a chi vuole insegnare veramente.
Insomma, il docente deve poter insegnare la sua materia. Tutto il resto deve essere tolto, oppure ridotto, oppure demandato a persone seriamente formate che non siano il corpo docente, anche in base alla tipologia di indirizzo di scuola: che senso ha far perdere tempo a studenti dei liceo classico o scientifico a fare corsi online su argomenti inutili perché devono assolvere un obbligo temporale imposto dalla normativa? (succede anche questo).
Oltre alle leggi, ai codici, alle circolari, agli annunci, ci vogliono finanziamenti seri, che si potrebbero trovare, per esempio, eliminando quella serie dei cosiddetti “Progetti di arricchimento dell’offerta formativa”. A che servono, se la maggioranza degli studenti non raggiunge livelli adeguati nelle competenze di base e l’università deve perdere tempo a recuperarle?
Facciamo un altro esempio: qualcuno ritiene davvero che sarebbe drammatico ridurre il numero delle ore di CPTO al liceo, perché gli studenti possano studiare di più le discipline e magari scrivere in lingua italiana in maniera corretta?
In un dialogo platonico in cui si discute se la virtù sia “insegnabile” o meno, Menone offre a Socrate tre possibilità: la virtù è didaktòn, cioè è un contenuto cognitivo che può essere trasmesso con l’insegnamento; la virtù è asketòn, cioè si acquisisce con l’esercitazione; la virtù perviene alle persone physei, cioè per natura, cioè non è né una nozione, né una abitudine, bensì un talento innato. I docenti devono poter avere tempo ed energie effettive per poter ascoltare i loro studenti, senza essere impegnati in attività che nulla hanno a che fare con l’insegnamento vero e proprio, per tacere della burocrazia. Quelle di Menone non sono alternative, ma possibilità offerte al docente di oggi nel suo reale lavoro con i ragazzi di oggi – diversi da quelli di ieri –, che vanno ascoltati, perché oggi i loro sono “occhi spenti di gabbiani senza nemmeno più il desiderio del volo”, come ha scritto Gianluca Zappa.
C’è un gigantesco cortocircuito in atto: stiamo infarcendo la scuola di altro, accelerando la “disumanizzazione” di quel luogo che dovrebbe essere fattore di trasmissione dell’eredità, ciò della “coltivazione” della nuova umanità. Tra i recenti fatti di cronaca, mi ha molto addolorato il suicidio del ragazzo quindicenne a Senigallia per atti reiterati di bullismo da parte di altri tre. Leo ha preso la pistola del padre e ha posto fine alla propria umiliazione e sofferenza. Il docente, che non deve fare lo psicologo professionista, oggi è troppo “distratto” da mille attività e incombenze per fare ciò che deve fare: insegnare ed educare. È questo lavoro a richiedere di sapersi porre in ascolto di chi è più fragile, non la creazione e l’inserimento nel tempo-scuola di una ennesima “educazione” ad hoc. In un messaggio del 9 ottobre, Leo scriveva: “Ho parlato con un prof, gli ho detto che voglio cambiare scuola, non ce la faccio più”. Il docente si sarebbe limitato a ricordargli l’obbligo scolastico fino ai 16 anni, senza informare la scuola o la famiglia! Fare oggi l’insegnante è un mestiere complesso, ma non è meno complesso governare la scuola e assumere le decisioni giuste.
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