Uomini e donne imparano poco dalla storia, ma pare che ancor meno apprendano dalla cronaca. Il reiterarsi inesorabile dei femminicidi, che punteggiano di rosso il calendario dei giorni ordinari e dei giorni festivi, ne è una prova inconfutabile, purtroppo. Si potrebbe allora ritentare con le fiabe, un frutto (intellettuale) di tempi in cui poco si conosceva la storia e dove la cronaca era affidata a media di gran lunga meno potenti di quelli attuali.
Una fiaba calzante a pennello, ma poco conosciuta è Barbablù, la fiaba a cui Charles Perrault (1628-1703) diede la forma definitiva, con altre celeberrime fiabe, nella raccolta nota col titolo I racconti di Mamma Oca, manoscritto che il geniale scrittore consegnò alle stampe alla fine del Seicento.
La fiaba, è presto detto, fa leva su un pericoloso inganno amoroso, clamorosamente evitabile ma non per questo evitato. Il motivo? Una lampante svista della protagonista femminile, sulla quale lettori e uditori sono invitati a riflettere. Il seduttore, che entra “in fabula” nelle vesti di corteggiatore prima e marito in seguito, ha infatti la barba blu. Un’anomalia ben visibile, un segnale d’allarme evidente, considerato con prudenza da molte donne, pericolosamente sottovalutato da tante altre, che in forza di tale imprudenza, divennero le sue vittime. “Ma quest’uomo” recita la fiaba nella bella traduzione del Collodi, “per sua disgrazia, aveva la barba blu: e questa cosa lo faceva così brutto e spaventoso, che non c’era donna, ragazza o maritata, che soltanto a vederlo, non fuggisse a gambe dalla paura”. Tuttavia, a quelle che invece di darsela a gambe, spinte da un’insana curiosità si arrischiavano ad avvicinarlo, Barbablù sarebbe stato ben capace, con le lusinghe prima e con le minacce poi, di far credere “che non aveva la barba tanto blu, e che era una persona ammodo e molto perbene”.
L’inciso della fiaba sulla “disgrazia” di Barbablù, che a una prima considerazione può suonare inappropriato, è invece lungimirante, perché senza tale difetto sarebbe stato più semplice per il mostro attirare le vittime nella sua trappola mortale. Alla protagonista femminile la fiaba non dà un nome, ma la indicata come la sorella di una certa Anna, che pur ricevendo le stesse profferte galanti della sorella non volle “saperne nulla (…) non trovando il verso di risolversi a sposare un uomo, che aveva la barba blu”.
Nell’economia della fiaba Anna ha un ruolo importante, perché è a lei che la sorella chiederà aiuto una volta riavutasi dell’incantesimo che le impediva non tanto di accorgersi che la barba fosse blu, ma di cogliere che quel segno significava un pericolo, perché Barbablù era un assassino, del tipo pernicioso ricadente sotto la fattispecie del femminicida.
Anna, a differenza della sorella, ha un nome perché sa nominare cose, persone e azioni, mentre la sorella che, in preda alle lusinghe di Barbablù, smette di giudicarle perde anche il nome, venendo così (potenzialmente) annoverata nella schiera anonima delle vittime.
L’associazione tra il colore della barba di Barbablù e il suo essere un omicida è messa in evidenza dalla fiaba sin dalle prime battute senza attendere la morale, che si tira solitamente in conclusione: “La cosa poi che più di tutto faceva loro ribrezzo era quella, che quest’uomo aveva sposato diverse donne e di queste non s’era mai potuto sapere che cosa fosse accaduto”. Ciò a dire che non era necessario, per accorgersi del pericolo, trovarsi al cospetto dei cadaveri delle altre vittime, come invece sarà necessario alla protagonista nella fiaba, una volta che si decise (meglio tardi…) a indagare e a far luce sugli “scheletri nell’armadio” di Barbablù.
All’inizio della sua indagine la giovane donna “non poté distinguere nulla perché le finestre erano chiuse: ma a poco a poco cominciò a vedere che il pavimento era tutto coperto di sangue accagliato, dove si riflettevano i corpi di parecchie donne morte e attaccate in giro alle pareti. Erano tutte le donne che Barbablù aveva sposate, e poi sgozzate, una dietro l’altra”. La scoperta le fu quasi fatale, non solo per il grande spavento ma perché la pena per la sua indagine era la morte. “Voi siete voluta entrare nella stanzina. Ebbene, o signora: voi ci entrerete per sempre e andrete a pigliar posto accanto a quelle altre donne, che avete veduto là dentro”.
In ogni fiaba che si rispetti ci sono gli aiuti, ed anche Barbablù non fa eccezione, in soccorso della sorella intervengo infatti Anna e i loro due fratelli: “un dragone e un moschettiere”, che giunti appena in tempo, passarono con la spada Barbablù “da parte a parte e lo lasciarono morto”. La fiaba conclude che, una volta scampato il pericolo mortale, la giovane donna riuscì a “maritarsi con un fior di galantuomo, che le fece dimenticare tutti i crepacuori che aveva sofferto con Barbablu”. Ma alla protagonista della fiaba, alla quale Perrault non da mai un nome, anche se in conclusione lei se lo è certamente meritato, non sarebbe toccata una sorte migliore con un nuovo venuto, se prima non avesse riabilitato il proprio giudizio su chi porta una “barba blu”. Senza questo primo aiuto, anche gli altri non saranno efficaci. Il primo aiuto è sempre un’istanza personale, un moto e una domanda che vengono da sé. Come anche si dice: “aiutati che il ciel t’aiuta”.
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