Perché un no-vax diventerà il ministro della Sanità nel Governo di Trump? Perché il responsabile delle agenzie di intelligence è un sostenitore della Russia? Perché molti dei membri del prossimo Governo americano sono persone prive delle necessarie conoscenze tecniche, di equilibrio e prudenza? In realtà, la squadra del 47esimo Presidente è molto coerente. Sarà un Governo di grande unità, ognuno dei suoi membri è “uno dei nostri”. Questo è ciò che li qualifica. Non importa se conoscono le leggi, la politica economica o la sicurezza nazionale. Sanno quello che devono sapere. Il capo li considera tutti “uno dei nostri”. Serve soltanto un’appartenenza chiara ed empatica, un’appartenenza che non richiede capacità critica. Basta stare dalla parte di Trump: credere che sia iniziata un’età dell’oro e che le élites di Washington riceveranno ciò che meritano dopo aver rovinato il Paese.
Sei “uno dei nostri” quando senti che chi è andato all’università è un privilegiato, che i migranti ti tolgono il pane, che la cattiva politica ti ha rubato il lavoro e il benessere. È un’appartenenza emotiva, una forma di protezione del gruppo. Il malessere per molti è più concreto dei principi che ispirano una democrazia. Il problema non riguarda solo gli Stati Uniti, non riguarda solo la salute democratica. E, di fronte a questa difficoltà, c’è chi pensa che gli eccessi di emotivismo politico, religioso, familiare o relazionale si “curino” con la formazione. Si tratta di migliorare l’istruzione. Per rimediare al mancato attaccamento dei giovani alla democrazia sarebbe necessario riformare i piani di studio e dedicare più ore all’insegnamento della morale costituzionale. È una formula che i francesi usano da decenni, sempre molto “orgogliosi dei valori della Repubblica”.
Il fallimento è schiacciante, come si è visto nelle ultime elezioni. Anche in Spagna, 20 anni fa, si poneva molta enfasi sull’introduzione della “educazione alla cittadinanza” nei piani di studio. La formazione alla cittadinanza, la formazione dottrinale ai dogmi cattolici, la formazione o l’auto-aiuto emotivo falliscono. È come se, dopo il crollo dell’Illuminismo, pensassimo ancora che il razionalismo politico o religioso, il razionalismo applicato alle relazioni, potesse risolvere qualcosa. Il razionalismo non può correggere le deviazioni dell’indignazione o dell’entusiasmo. È l’altra faccia dell’emotivismo.
Ciò che non è unito all’origine, nel modo in cui una persona conosce, si relaziona con se stessa e con la realtà, non può essere unito successivamente. Pensiamo ancora che le emozioni che le diverse situazioni che affrontiamo provocano in noi siano tutto oppure siano un’interferenza che ci impedisce di usare la ragione. Il problema per la razionalità democratica non è che molti elettori di Trump si sentano frustrati. Il problema è che non vanno fino in fondo a quella frustrazione: la frustrazione è un invito a usare la propria capacità critica. L’appartenenza diventa tossica perché “essere uno dei nostri” significa vivere dissociato. È questa la crisi antropologica del soggetto postmoderno, incapace di sfruttare l’impatto estetico che la realtà inevitabilmente provoca per conoscere se stessi e il mondo.
La dissociazione non si risolve con l’allenamento. Si risolve con un’educazione capace di sviluppare la capacità critica, la libera adesione e l’uso della ragione unita al sentimento. L’esercizio della ragione, la capacità di valutare e giudicare, cessa di essere un “aggiuntivo” alla vita solo quando nasce dal suo nucleo, dall’esperienza. Dobbiamo allenarci per questo tipo di esercizio.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.