L’attuale scontro tra il fondatore del movimento pentastellato e l’attuale presidente del partito, Giuseppe Conte, costituisce il probabile epilogo del Movimento 5 Stelle che, fondato nel 2009, era arrivato ad imporsi come primo partito a livello a livello nazionale appena tre anni dopo, alle elezioni politiche del 2013, superando partiti ben più consistenti sul piano storico.
La traiettoria di M5s, costituita non solo dal suo folgorante successo ma anche – e forse soprattutto – dalla sua stessa inimmaginabile persistenza, che lo porta a detenere ancora il consenso del 15,43% dei votanti alle elezioni politiche del 2022, non possono non costituire una fonte di riflessione e di analisi.
Il logoramento subito da Giuseppe Conte negli impegni di governo, occupando per due volte la Presidenza del Consiglio dal 2018 al 2021, per di più gestendo il difficile periodo della pandemia, e le tensioni interne che ne hanno caratterizzato la leadership rendono la persistenza dei 5 Stelle come terzo partito alle europee del 2024 ancora più singolare e poco comprensibile. Specialmente se confrontata con il ridimensionamento di altre forze politiche, di ben diverso radicamento territoriale e di presenza istituzionale.
La spiegazione del successo e della persistenza, ancorché ridimensionata, dei pentastellati risiede essenzialmente nella loro capacità di avere rappresentato la disistima radicale presente nel Paese nei confronti non tanto di quella che, in estrema analisi, è stata definita come la “repubblica dei partiti”, quanto soprattutto della logica di potere che alimenta verosimilmente la mobilità interna a ciascuno di questi.
La reazione popolare agli scandali della prima repubblica e la tempesta giudiziaria portata avanti dalle diverse procure d’Italia nei confronti di uomini e apparati di partito hanno costituito l’autentico retroterra politico-culturale nel quale il Movimento 5 Stelle si è di fatto sviluppato, incontrando un consenso tanto esteso quanto irrecuperabile. L’idea per la quale in ciascun partito sia presente un inevitabile principio di corruzione al quale questi finisca inevitabilmente per esporsi, per quanto limitata da analisi più dettagliate, ha fatto da propellente permanente a questo movimento.
Principi di alternativa radicale come quello dell’uno vale uno e quello costituito dal divieto del terzo mandato, volevano pertanto funzionare come rivelatori di un’alterità sostanziale che la formazione pentastellata si è impegnata a rappresentare. La realtà testarda ha dimostrato come una tale riduzione del problema, benché attraente sul piano dei principi morali, si rivelasse controproducente nella pratica. I saperi e la loro capacità di applicarli scavano differenze a volte incolmabili tra le persone, che pure restando pari nei diritti si rivelano impari nella capacità di sostenere responsabilità e impegni, quando competenza ed esperienza si rivelano essere una merce rara che si accumula negli anni.
C’è da chiedersi se con l’ultimo sussulto contraddittorio del co-fondatore dei 5 Stelle e l’inevitabile scontro con l’attuale presidente non si assista alla fine di un’epoca, dove termini come contestazione e rivolta – che hanno occupato costantemente il proscenio e dei quali il radicalismo anti-casta dei pentastellati ha rappresentato il volto popolare – non sono più attuali, non designano più nulla.
C’è infatti realmente da chiedersi se il problema consista ancora nelle leadership che governano il Palazzo quanto invece non risieda altrove: in una società spiaggiata su sé stessa, dove i problemi sorgono dal suo stesso interno, dal suo tessuto connettivo.
L’invecchiamento progressivo della popolazione e l’inevitabile riparametrazione del servizio sanitario, l’esasperazione narcisista di una generazione con mille social ma senza padri in grado di rendersi tali, la presenza di un universo migratorio abbandonato a sé stesso ed alle logiche di gruppo che finiscono inevitabilmente per emergervi, sembrano affermarsi come dei problemi ben più consistenti dei pur legittimi adeguamenti salariali.
Troppe debolezze e troppe fughe dalle responsabilità attraversano oramai la compagine sociale a tutti i livelli, troppe le zone oscure “senza padri né maestri” dominate dalle logiche del branco in alcuni casi o dalla colpevole e patologica indifferenza della collettività circostante negli altri.
In questa società spiaggiata sulla riva, le manifestazioni di piazza, specialmente quanto vestita della coreografia della rivolta, appaiono appartenere ad un “mondo di ieri”, sempre più lontano e imprigionato nell’eterna riproduzione dei tempi che furono, mimando anche esteticamente una contrapposizione che non esiste più da diversi decenni.
Per questa strada la resa dei conti interna al M5s si rivela essere, in realtà, molto di più dell’inevitabile rendiconto che caratterizza ogni lotta tra leadership. Essa costituisce uno dei tanti segnali, forse il più fragoroso, di un ciclo storico che si è chiuso già da tempo e del quale stentiamo a renderci conto.
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