Viene naturale affiancare l’agitazione a oltranza proclamata a partire da oggi in Germania dai lavoratori della Volkswagen e lo sciopero generale svoltosi venerdì in Italia.
Maurizio Landini – leader della Cgil e dello sciopero italiano – è cresciuto nel sindacato per eccellenza: quello dei metalmeccanici – in Italia come in Germania. Ma la Fiom – a differenza dell’IgMetall – ha perso da anni centralità proprio a causa del declino della Fiat, un tempo concorrente europea di Volkswagen. Anche per questo le piazze italiane sono state dipinte – e criticate – come politiche più che sindacali: con Cgil e Uil a fare opposizione, a supplire un’opposizione che peraltro lo stesso padre nobile del Pd, Romano Prodi, ha lamentato come debole, ai limiti dell’inesistenza. Sono in effetti i sindacati a guidare la protesta per i livelli salariali erosi dall’inflazione, per la precarietà occupazionale e per specifici fronti di crisi come casa o sanità pubblica. Le forze politiche del centrosinistra – i “dem” più i pentastellati – rimangono concentrate sulla vera o presunta minaccia anti-democratica da parte della maggioranza di centrodestra piuttosto che sulle lotte interminabili sui cosiddetti “diritti” (la giornata di denuncia della violenza sulle donne ha ottenuto più visibilità mediatica dello sciopero generale).
È vero che anche Stellantis – di cui Exor è primo azionista e John Elkann Agnelli è Presidente – è in trincea davanti a palazzo Chigi per ottenere sussidi pubblici, anche a fini di sostegno occupazionale: inizialmente per favorire la transizione verso la mobilità ecologica, oggi ormai per fronteggiare l’involuzione di quella strategia, peraltro aggravata dall’inflazione sull’energia fossile. Sotto questa luce anche le fibrillazioni italiane attorno alla crisi dell’auto hanno visibili connotati industriali. Per una Stellantis assai meno italiana di un tempo, resta invece un settore della componentistica ancora molto importante e molto agganciato alla domanda di Volkswagen delle sue sorelle. Che sono fin d’ora le prime interessate alla continuazione geopolitica delle guerre calde in fase di spegnimento: principalmente nell’aggiustamento complesso dei rapporti economici dell’Ue con Usa e Cina.
Dal canto suo la vertenza Volkswagen si annuncia di per sé a forte valenza politica per due ragioni. La prima è la dichiarazione di migliaia di esuberi negli impianti in Germania per la prima volta dall’unificazione tedesca: una crisi-Paese. A differenza dell’Italia, oggi stabile nel suo Governo, la locomotiva d’Europa sta poi attraversando una profonda crisi politica, sfociata nella caduta del governo rosso-verde di Olaf Scholz e nella chiamata di elezioni anticipate per febbraio. Un terremoto politico dalle forti radici socioeconomiche: la recessione congiunturale e la perdita tendenziale di competitività industriale della Germania dopo Covid e crisi geopolitica; e le pressioni populiste ed estremiste sui partiti tradizionali, nel mezzo di un duplice problema di integrazione a lungo termine (con immigrati e con ex tedeschi dell’Est).
Sembra esservi così più di una ragione per seguire in parallelo le mosse dei sindacati italiani e di quelli tedeschi. Con un precedente non da poco: dopo un lungo anno di agitazioni pesanti, l’Uaw – il sindacato dei lavoratori dell’auto americani – ha avuto ragione di General Motors, Ford e della stessa Stellantis (Chrysler) in uno scontro strettamente salariale. Ma non vi è stato alcun effetto di “cinghia di trasmissione” di consenso politico verso i “dem” del Presidente Joe Biden e meno ancora verso la candidatura di Kamala Harris.
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