Nelle città dense, le parti dei centri urbani realizzate senza pensare alla presenza dell’auto e adattate alle macchine a costo di stravolgimenti richiedono una progressiva riduzione dell’uso delle vetture. Mano a mano che si esce da questa realtà, però, osserva Federico Parolotto, CEO di MIC-HUB, società che si occupa di pianificazione e progettazione della mobilità su diverse scale, bisogna prendere atto che l’automobile diventa centrale per gli spostamenti. La mobilità del futuro deve tenerne conto e imparare a utilizzare i big data, le informazioni sui flussi e sugli spostamenti, per cambiare di conseguenza il modo di vivere la mobilità.
Come possiamo immaginare la mobilità del futuro? Quello della smart city, ad esempio, è un modello che regge?
Si parla di smart city da almeno 15 anni e alcune implementazioni legate a soluzioni tecnologiche sono già state applicate. La questione vera è: qual è l’idea di città e mobilità che la tecnologia deve concorrere a realizzare? “Area C” a Milano è figlia di potenzialità che si sono sviluppate recentemente, per cui le targhe vengono scansite da telecamere che le trasformano in informazioni vettoriali raccolte in un database, verificando se il pagamento è stato effettuato online. Ma il vero problema è quale città abbiamo in mente. È evidente che il tema è una progressiva riconciliazione con l’uso dell’automobile e il fatto che, occupando spazio con la macchina, occorra pagare il servizio. A Milano si va anche verso la smaterializzazione del biglietto attraverso carte di credito o sistemi di abbinamento che ci allontanano dal biglietto tradizionale. Tutti progetti smart, ma bisogna vedere in quale direzione vogliamo andare.
Come si può organizzare, allora, la mobilità a partire dalle città?
La questione è cosa intendiamo per città. La parte densa, sviluppata prima dell’arrivo dell’automobile, negli anni ’60, non prevedeva le vetture. La rete stradale non contemplava spazi per parcheggi a raso né per canali di movimento associati all’automobile. Una macchina, quando si muove, ha bisogno di spazi su entrambi i lati: un’occupazione di spazio non contemplata. Ecco perché nelle città dense occorre ripensare questo aspetto. Per adeguarci a questa situazione abbiamo manomesso e, in alcuni casi, disintegrato la qualità urbana per accogliere automobili che non dovrebbero esserci. È una condizione verso la quale dovremo andare nelle parti dense urbane delle città medio-grandi italiane. A Milano i controviali, pianificati nell’800 per passeggiate urbane, sono usati come parcheggi. In generale le corsie, i canali di spostamento e le strade non sono stati pensati per accogliere le automobili.
Non ci sono, però, solo le città medio-grandi e le loro parti dense. Per il resto come ci si regola?
Se penso al Nord Milano e agli spazi territoriali che si sono sviluppati negli ultimi 30 anni, l’automobile è diventata un mezzo insostituibile: di fatto, nelle basse densità, gli spostamenti sono nel raggio di 6-8 chilometri. Negli ambiti in cui gli insediamenti si sono dispersi e sulla rete stradale che è stata disegnata a supporto, pensare di rinunciare all’auto mi sembra velleitario: qui dobbiamo riconfigurare le strade, accogliendo anche le reti ciclabili e favorendo l’interscambio sulle reti di ferro. Di fatto, però, in questo contesto la riduzione drastica dell’uso dell’automobile la vedo molto complicata.
Cosa possiamo imparare dalle grandi città europee in questo senso?
Ci sono due aspetti fondamentali. A Barcellona il plan Cerdà, che ha caratterizzato lo sviluppo della città, non è stato pensato per le automobili. Per questo lì stanno mettendo mano ad alcune parti della città modificandole: un grande urbanista come Salvador Rueda ha immaginato una città diversa partendo dalla configurazione della rete stradale e dei flussi. Stanno chiudendo strade, espandendo marciapiedi, comprimendo intersezioni: tutto quel mondo di riduzione della capacità stradale che in Italia sembra essere ancora tabù. Stessa cosa sta succedendo a Parigi.
Cosa ci hanno detto queste esperienze?
I flussi della mobilità urbana sono molto più malleabili di quanto pensiamo, evidentemente ci sono alternative di trasporto. A Roma, in un quadro di parziale desertificazione del trasporto pubblico, diventa difficile, ma a Milano, come a Parigi o Barcellona, le alternative sono possibili grazie a una più potente rete di trasporto pubblico. Prima dell’automobile uno spostamento di 20 minuti a piedi per raggiungere un determinato punto era considerato del tutto naturale, adesso risulta per molti inaccettabile. Occorre pensare a un approccio alla mobilità che passi anche da cambi culturali. Il trasporto pubblico è una conditio sine qua non quando si parla di aree metropolitane o di città ampie. Ma si può parlare anche di spostamenti a piedi o in bici. Oltre il 40% degli spostamenti in città è sotto i cinque chilometri e con una bici elettrica si può fare in un quarto d’ora. Ci vogliono predisposizione e infrastrutture.
Non è facile, però, far accettare certe modifiche. Come si fa?
Una volta che queste modifiche vengono realizzate non si torna indietro. Emerge una qualità migliore, un modo di vivere la città migliore e il dissenso evapora. Negli anni ’80 ci sono state ferocissime critiche alla chiusura di corso Vittorio Emanuele, ora fa ridere pensarci. Adesso è diventato attrattivo, c’è quasi troppa gente.
Non c’è, però, solo il tema della mobilità delle grandi città, ma anche dei collegamenti con queste realtà. Come si sviluppa in modo sostenibile?
Quando parliamo di infrastrutture esterne, le strade sono state costruite a uso e consumo esclusivo delle automobili, non si possono percorrere a piedi o in bicicletta. Bisogna andare verso la despecializzazione e favorire l’interconnessione con il trasporto pubblico. Tenendo conto della centralità dell’auto in questi contesti e della crisi climatica che stiamo attraversando, la soluzione è di andare rapidamente verso la mobilità elettrica. Senza immaginare un futuro che non c’è: la mobilità con l’idrogeno non è ancora possibile; pensare di andare tutti in bici o con il trasporto pubblico nemmeno. Prendersela con chi ha una villetta fuori città e un SUV dicendogli che ha sbagliato tutto e che deve usare il trasporto pubblico è altrettanto moralista che dire: “Voi siete i fighetti del centro e volete stare senza le macchine”. Possiamo far sì che, con sovvenzioni e infrastrutture per la ricarica, quel SUV diventi elettrico.
Andiamo comunque sempre di più verso una modalità on-demand, ritagliata sulle esigenze del singolo?
Ci sono tante forme di on-demand. In uno studio di Carlo Ratti per New York si mostrava come, con un algoritmo, si poteva ridurre di due terzi i taxi facendo salire sulla stessa vettura più persone. Il problema è che il taxi ha una dimensione di privacy in cui chiudersi. Questo è un limite dell’on-demand, se si intendono con questo i taxi collettivi. È vero, però, che soprattutto nelle realtà più difficili da servire con il trasporto pubblico si sta andando nella direzione di sistemi in cui alla linea con cadenza fissa si preferisce l’on-demand, che magari prevede modifiche del percorso in base alle esigenze. In questi contesti comunque è sempre difficile rinunciare alla macchina.
(Paolo Rossetti)
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