“Della fede è più facile parlare che scrivere: perché essa non è un sistema escogitato nell’interiorità, ma viene dal fatto che altri me la comunicano ed esige di essere comunicata”. Nella risposta che Joseph Ratzinger diede una volta a chi gli chiedeva se un uomo di cultura superiore come lui, e per di più Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, non si sentisse a disagio nel doversi esprimere nella forma “povera” dell’intervista, emerge la ragione profonda del rapporto privilegiato che egli ha consapevolmente cercato con la stampa; e, più in particolare, con chi – tra i giornalisti – lo ha meglio conosciuto e più intervistato: Peter Seewald.
Tutto era iniziato in un freddo mattino d’inverno del 1996, quando i due si erano dati appuntamento di fronte al Palazzo del Sant’Uffizio, accanto a San Pietro, per raggiungere insieme in macchina Villa Cavalletti – l’allora casa degli esercizi spirituali dei Gesuiti alle porte di Roma – dove avrebbero trascorso qualche giorno insieme per realizzare il loro primo libro-intervista. In sé, i co-autori non avrebbero potuto essere più diversi: qui un impetuoso notista politico, già militante comunista nella cattolica Baviera, che da tempo aveva abbandonato la Chiesa e che in ogni caso era privo di una qualsiasi formazione teologica; lì un anziano e mite cardinale, teologo fine e autorevole che però nell’immaginario collettivo era soprattutto il “Rottweiler di Dio”, lo spietato censore di chiunque avesse osato contestare la “linea ufficiale” o mettere in discussione posizioni di potere acquisite.
E tuttavia, in quei giorni, più la conversazione si infittiva, più maturava qualcosa che, per le premesse date, difficilmente si sarebbe immaginato potesse accadere. Seewald faceva effettivamente domande “scomode”, “radicali” nel senso letterale del termine, di quelle che una certa routine della fede o un certo timore reverenziale avrebbero portato a non fare, e tanto più a un “principe della Chiesa”. E tuttavia, ricorderà più tardi lo stesso Ratzinger, proprio quelle erano anche le domande più “autentiche”; perché “si vedeva che lo riguardavano personalmente”, anzi: “che ci riguardavano sin dentro agli aspetti più profondi e personali del nostro essere e della nostra vita”. Nasceva così Sale della terra, il primo dei tre libri intervista realizzati con il giornalista tedesco (e a dieci anni di distanza da Rapporto sulla fede, la famosa conversazione con Vittorio Messori del 1985 raccolta anch’essa nel volume 13 dell’Opera omnia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2024). Nel 2000 seguirà Dio e il mondo, concepito nell’Abbazia di Montecassino; quindi, nel 2010 Luce del Mondo, frutto di una lunga conversazione con Papa Benedetto XVI durante un soggiorno a Castel Gandolfo.
Pur nella diversità di contenuti – che rispecchiano il mutare dei tempi e insieme le diverse tappe del cammino di conversione dello stesso Seewald – le tre lunghe conversazioni sono accomunate dal medesimo intreccio di dimensione personale, attualità e attinenza alla vita. E al contempo riflettono tutte una profonda attitudine di Joseph Ratzinger che egli, una volta, riferì al suo amato maestro Agostino; ma che, proprio leggendo le interviste, il lettore non faticherà a intravedere in lui stesso: “Nietzsche una volta ha detto di non poter soffrire sant’Agostino, tanto gli pareva plebeo e comune. In quest’osservazione c’è indubbiamente qualcosa di giusto, ma sta proprio qui la vera grandezza cristiana di sant’Agostino. Egli avrebbe potuto essere un aristocratico dello spirito, ma, per amore di Cristo e degli uomini, nei quali vedeva venirgli incontro Cristo, ha abbandonato la torre d’avorio dell’alta spiritualità per essere totalmente uomo tra gli uomini, servo dei servi di Dio. Per amore di Cristo, che non ha disdegnato di abbandonare la gloria divina e di essere uomo come noi, egli ha sacrificato tutta la sua cultura superiore ed è riuscito a portare ai suoi la Parola di Dio con semplicità e schiettezza sempre maggiori”.
Il significato e l’importanza che a questo scopo Ratzinger attribuisce alla forma del dialogo è resa bene da un episodio raccontato da lui stesso in un’intervista concessa all’inizio degli anni Duemila (e contenuta nel terzo tomo del volume che raccoglie una selezione di conversazioni realizzate dal 1969 al 2004 e sino ad oggi in gran parte inedite). Una volta Christoph Schönborn – suo ex allievo del tempo in cui il prof. Ratzinger insegnava a Ratisbona e nel frattempo divenuto anch’egli cardinale e arcivescovo di Vienna – in un aeroporto si era imbattuto in un libro in cui, in forma di dialogo, un padre insegnava al figlio che cos’era l’induismo: “Era scritto in modo così coinvolgente – nota Ratzinger – che le persone in quell’aeroporto effettivamente compravano una cosa del genere e la leggevano”.
Beninteso: non che una volta divenuto “Custode della fede”, Ratzinger rifiutasse a priori qualsiasi riflessione metodica su Dio improntata alla ragione: la teologia era e rimaneva il suo mondo. Essa però non doveva deragliare dalla semplicità della tradizione, pena lo smarrire prima di tutto se stessa e tradire il suo vero compito: aiutare a dischiudere le grandi potenzialità della condizione umana, orientare l’uomo alla pienezza della vita. Così, quando all’inizio del suo mandato di capo dell’ex Sant’Uffizio, al Cardinale fu chiesto di delineare il compito di una Congregazione sulla quale pesava ancora un alone di sospetto e di mistero, rispose: “È la cura della fede dei ‘piccoli’ di cui parla il Vangelo, che deve sempre essere anteposta al timore di qualche conflitto con chi appare potente”. Questa lotta contro il potere per la difesa della fede dei semplici è la grande nota di sottofondo di tutte le sue interviste; e, insieme, di tutta la sua vita di sacerdote, di teologo, di vescovo, di cardinale e infine di papa.
Agli inizi degli anni 90 – in assoluta controtendenza rispetto alla generale euforia suscitata dal crollo del Muro di Berlino – notava a riguardo come sarebbe arrivato un tempo in cui la “superbia della ragione” avrebbe raggiunto dimensioni e una pervasività tali che nessun argomento, per quanto ragionevole, avrebbe avuto la forza di contrastarla. Ma proprio allora, diceva, sarebbe nuovamente divenuto evidente che in ultima analisi il “nichilismo banale” – usava un termine del suo amico Robert Spaemann – “può essere vinto solo da testimoni, da persone che sono veramente toccate dalla verità, che non vogliono affermare sé stesse, ma che sanno ascoltare, che sono sensibili, accoglienti e che sono anche pronte a testimoniare la verità. Persone, dunque, nelle quali si vede che non ambiscono a diventare qualcuno, a fare carriera, a esercitare un potere … persone che hanno qualcosa da trasmettere, e lo fanno; e nelle quali si vede che c’è qualcosa di più grande di cui essi stessi si fanno servitori…; perché per noi, la verità, non può essere astratta”.
Al termine del suo cammino, il papa emerito quasi non riusciva più a parlare. A chi di tanto in tanto poteva visitarlo al “Monastero” manifestandogli anche solo con uno sguardo la paura per una lotta che sembrava impari – e dunque la difficoltà a essere lieti di fronte a un’evidenza così – Joseph Ratzinger replicava proprio con la forza travolgente e l’attrattiva irresistibile del testimone. Chi l’ha incontrato, sa come il suo sguardo così sereno e limpido toccasse subito il cuore; tanto quanto il messaggio che con quello sguardo trasmetteva: “Non siamo noi che abbracciamo il Signore, ma è lui che abbraccia noi; non noi portiamo il Signore, ma è lui che porta noi; la barca non è la nostra, ma la sua: con lo sguardo fisso su di lui, cammineremo sulle acque”.
Auguro al lettore di questo volume di potere anch’egli, pagina dopo pagina, rigenerarsi nell’incontro con questo grandissimo teologo, pastore e testimone della verità in dialogo con il proprio tempo.
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