Da quando Bob Dylan ha vinto il premio Nobel per la letteratura, il mondo accademico, quello delle università per intenderci, ha finalmente cominciato a interessarsi a quello che, al massimo, era definito “il menestrello della canzone americana”. Va detto che nel mondo anglo-americano i docenti universitari ancor prima che il cantautore ricevesse la più importante onorificenza del mondo della letteratura, avevano dedicato a lui approfonditi studi colti.
Il libro “Bob Dylan e il mito”, uscito da poco in Italia per i tipi di Arcana (320 pagine, 20 euro e 90) è però il primo esempio italo-francese, anche se al suo interno ci sono diversi docenti americani e inglesi. Curatori sono tre docenti e ricercatori dell’Aix Marseille Université: l’inglese Matthew Graves e gli italiani Pierluigi Lanfranchi e Claudio Milanesi. L’ampio volume è composto da molti capitoli, in cui si esplora la connessione fra l’opera del cantautore e “il mito”, inteso come lo definisce la Treccani: “Dal greco mỳthos (‘parola, racconto’), una narrazione di particolari gesta compiute da dei, semidei, eroi e mostri. Il m. può offrire una spiegazione di fenomeni naturali, legittimare pratiche rituali o istituzioni sociali e, più genericamente, rispondere alle grandi domande che gli uomini si pongono. Caratteristica essenziale del m. è che esso si sia diffuso oralmente prima di essere scritto, e che si perpetui nella tradizione di un popolo”. E chi più di Bob Dylan ha fatto uso di questo concetto, in special modo in modo orale (la forma canzone) sviluppandolo sempre più ampiamente fino a dedicare quasi interamente un disco, l’ultimo, a Omero, Ulisse, Giulio Cesare e le antiche figure mitologiche dei mondi greco e romano? E prima ancora, in “Love and Theft”, alla Guerra Civile americana?
Il libro è molto accattivante (soprattutto i capitoli del professore Timothy Hampton e di Fabio Fantuzzi, dedicati alla canzone Murder most foul che rivelano una analisi appassionante di quella misteriosa canzone), altre volte criticabile, svelando la presenza delle mitologie nell’immaginario letterario e musicale che Dylan intreccia nelle sue canzoni.
Il rapporto tra Bob Dylan e il mito è una delle chiavi di lettura più affascinanti del suo lavoro artistico. La sua produzione, tanto musicale quanto poetica, è intrisa di un immaginario che attinge alle radici profonde della cultura mitologica, sia antica che moderna, rivelando un dialogo costante con archetipi e simboli universali.
L’universo poetico di Dylan si nutre di un ricco mosaico mitologico, spaziando tra antiche tradizioni – bibliche, greche, celtiche, egiziane (ricordate Isis, ma non solo?) – e suggestioni moderne. Più volte, nelle interviste e nei suoi scritti, l’artista ha sottolineato il ruolo centrale del mito nella sua opera e nella sua vita, dagli esordi fino ai giorni nostri. Emblematico è il suo discorso di accettazione del Premio Nobel, che ruota attorno a due grandi figure mitiche: Ulisse, protagonista dell’epopea omerica, e Achab, simbolo tragico e moderno del Moby Dick di Melville.
Ma il mito in Dylan non è soltanto una componente letteraria. Come artista della parola, parlata e cantata, Dylan intreccia indissolubilmente le tradizioni letterarie e musicali. Per lui, l’eredità mitica e letteraria si trasmette sempre attraverso la mediazione della tradizione musicale americana, profondamente radicata nell’incontro tra influenze africane ed europee.
In questo libro, studiosi come Adrian Grafe, Matthew Graves, Pierluigi Lanfranchi, Claudio Milanesi, Eric Montbel, Philippe Usseglio e Perle Abbrugiati si uniscono a Timothy Hampton e al nostro Alessandro Carrera per esplorare le molteplici connessioni tra l’opera di Dylan e i più diversi immaginari mitologici. Il risultato è un’analisi ricca e sfaccettata che illumina l’essenza stessa del suo genio creativo.
In Dylan, il mito non è mai statico: è una materia viva, plasmata e reinterpretata per parlare al presente, per risvegliare domande profonde e per offrirci una prospettiva più ampia sul nostro essere nel mondo. È attraverso il mito che Dylan diventa non solo un narratore, ma un creatore di mondi.
Come Ulisse, Dylan sembra sempre in viaggio, rifiutando di essere imprigionato in un’unica definizione o ruolo, in una continua tensione tra il mito e la realtà.
Certo, per un cantante che una volta prese in giro in modo acido gli intellettuali e gli accademici (You’ve been through all of F. Scott Fitzgerald’s books You’re very well-read, it’s well-known But something is happening here and you don’t know what it is Do you, Mr. Jones?) essere adesso inserito negli scaffali universitari sembra una sorta di ritorsione karmica. Ma siamo noi poveretti a mettercelo. Lui, Bob Dylan, viaggia libero e puro.
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