Giornalisti, sondaggisti, manager d’impresa, enti locali, tutti quelli che indagano o riflettono su fenomeni sociali, politici ed economici lo fanno con categorie, approccio, schemi e persino parole se non inventate, quanto meno introdotte per primo in Italia da Giuseppe De Rita, romano, classe 1932. I Rapporti del Censis (Centro Studi Investimenti Sociali) hanno insegnato e in molti casi scoperto nessi impensabili, alzato il sipario sui legami fra le trasformazioni più profonde e private con i fenomeni visibili e lampanti. Talvolta eclatanti o considerati drammatici, a prima vista di rottura.
Il saggio di Giuseppe De Rita Oligarca per caso. Il racconto della vita di un italiano alla ricerca degli italiani, scritto insieme a Lorenzo Salvia (Solferino, 2024) è una biografia intellettuale oppure un’“autobiografia selettiva”, come l’hanno felicemente definita gli autori nel corso della presentazione a Roma. In realtà, Oligarca per caso è un saggio sul potere, ma anche la summa analitica di chi, per mestiere e per passione, ha scannerizzato ogni angolo geografico e umano del nostro Paese.
Come ha avuto modo di osservare Gianni Letta, bisogna arrivare alle ultime righe, apparentemente residuali, marginali, per cogliere la potenza dell’ultima coraggiosa provocazione di Giuseppe De Rita. Per chiunque, infatti, “oligarchia” non è una bella parola se si parla di vita pubblica, di economia, di società. In qualche modo, con più o meno cultura, con più o meno abitudine a percepire il mondo e le sue evoluzioni, oligarchia fa pensare a un gruppo ristretto, avido difensore dei propri privilegi oppure occupatore degli spazi che contano. De Rita più che rovesciare i concetti astratti, scende nella realtà e spiega che l’oligarca di cui parla è un anello essenziale di una rete orizzontale, il punto di coagulo di professionalità e competenze per mettere in circolo le esigenze dal basso, connetterle fra loro e ricondurle a un percorso di bene comune. Oligarca è il contrario di gerarca. “Il gerarca diffonde il dissenso e lo trasforma in guerra” ha affermato a Roma Giuliano Amato, riferendo i passaggi centrali del libro. La funzione oligarchica, pertanto, è proposta come metodo e barriera per frenare la ricorrente tentazione verticistica che, nella storia, ha sempre dimostrato di non generare classe dirigente, di non saper gestire la complessità, di non riuscire a costruire equilibrio su differenze e diversità.
Beninteso, il libro non è un manifesto politico del momento, una voce contraltare, come tante, dei tempi che corrono. Peraltro, la narrazione segna anche un gradevolissimo connubio fra la biografia individuale dell’uomo, le sue vicende familiari, le vicissitudini professionali con strappi e vertigini suggestivi anche rilette oggi dopo decenni, con lo sviluppo di un pensiero organizzato, sempre “analitico, cartesiano”, ricorda Lorenzo Salvia, raccontando la costruzione del libro. È piuttosto una testimonianza umana e culturale, “intrisa di un forte senso religioso”, lo ha definito Gianni Letta, perché attorno al concetto di una società “autopropulsiva”, che decide se, dove, come e quando andare – il grande assioma e il portato centrale dei lunghi anni di ricerca di Giuseppe De Rita –, ruotano le grandi trame della vita, i concetti di intimità e di fecondità, il valore dell’intenzione e della volontà.
Un libro di respiro ben più ampio, allora, dello stesso saggio politico che si diceva in principio, anche se il modesto cronista, memore di un atteggiamento sempre molto positivo, sempre ricco di dati e di ragioni per spiegare le mille energie e le segrete risorse di un Paese che se la cava anche nelle situazioni più tragiche, deve pure segnalare che è la prima volta che l’opinione di Giuseppe De Rita ha il sapore dell’avvertenza. È la prima volta, a memoria, che ipotizza che potremmo anche non farcela. Senza un’avanguardia intellettuale che raccordi la dimensione orizzontale in un processo reticolare, che spinga avanti il Paese, verso obiettivi collettivi di bene comune.
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