L’uomo è il più temibile dei predatori. A dirlo è uno studio della University of Victoria della British Columbia in Canada, che sostiene che essere predatori significhi “praticare ogni attività che rimuove gli individui dalle popolazioni selvatiche”, sia uccidendoli che eliminandoli tramite processi di progressivo accerchiamento. Il predatore, tuttavia, non si identifica solo per i comportamenti che assume verso la preda, ma anche per il particolare legame che ha con i propri simili. Egli, infatti, tende a fare branco e ad escludere da quel branco i più deboli – che potrebbero penalizzare le attività di caccia –, marginalizzando sempre i potenziali competitori.
Le dinamiche umane sono dinamiche predatorie e il cosiddetto “mercato” spesso non è altro che il riproporsi moderno dell’antica jungla. Lo sguardo dell’uomo appare come captivus, prigioniero dei propri pre-giudizi e radicalmente teso ad escludere chi non rientra nei canoni stabiliti dal branco per poter sopravvivere. In nome del bene della comunità, si tengono lontano le persone che hanno capacità di apprendimento diverse da quelle normalmente riconosciute, si identificano e si gestiscono quelle con disabilità fisiche o mentali, si stigmatizzano coloro che hanno costumi morali che differiscono da quelli degli antichi. La diversità e il limite sono – per ogni predatore – un campanello d’allarme, un problema da risolvere.
La condanna sociale cresce e si aggrava per coloro che con le loro azioni si sono di fatto posti fuori dalla comunità: chi delinque, chi ha legato la propria vita a dipendenze da sostanze, da farmaci, dal gioco o anche solo da relazioni inadeguate e inopportune. Con gli adolescenti l’approccio spesso giudicante, o – ancor peggio – pietoso, va di moda per chi è autolesionista, per chi ha disturbi alimentari, per chi vive nel panico o nell’ansia, per chi si isola dagli altri.
Uno speciale riconoscimento, inoltre, è in questa decade del secolo riservato dallo studio a coloro che sono denunciati come “schiavi” del digitale. In ogni caso l’approccio è sempre lo stesso: i più malevoli vorrebbero in fondo sbarazzarsi di queste zavorre che ci impongono una morale da schiavi di nietzschiana memoria, i più benevoli vorrebbero semplicemente individuare, isolare e contenere il problema per poi risolverlo del tutto o, se non è possibile, almeno gestirlo.
Checché se ne dica di una simile analisi, è chiaro che certe condizioni di vita esprimono necessità o bisogni che sembrano incompatibili con l’organizzazione che il vivere umano ha assegnato al tempo e agli spazi di questa terra, ma quello che sorprende è l’incapacità dell’uomo di cogliere il limite personale e dell’altro come un nuovo spazio di libertà. È come se i sapiens fossero stati messi in un giardino strabordante di ogni ricchezza e, in quello stesso giardino, fosse stato piantato un albero da trattare diversamente, di cui non mangiare il frutto. Il peccato sorge nella storia come la reazione infantile ad un limite giudicato inadeguato e inopportuno. Sbarazzarsi del limite e vivere senza limiti è oggi la concezione più diffusa di diritto, la radice più profonda dell’uso comune della parola libertà. È in nome di questo che ci si sbarazza spesso di mariti e di mogli, di figli ingombranti e di genitori petulanti, di disabilità e di persone giudicate spesso fuori dagli schemi o sopra le righe (le stesse persone – per inciso – di cui dopo la morte si lodano le opere d’arte).
Il fatto è che liberare l’uomo non è soltanto, come si sosteneva nel ’68, toglierlo dai condizionamenti economici, culturali e politici che generano sul pianeta disuguaglianze e sfruttamento. Liberare l’uomo è generarlo ad una dimensione nuova, inaccettabile per ogni predatore: la comunione. Comunione, direbbe Gaber, “non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di un normale voler bene, non è un insieme casuale di persone, non è il consenso a un’apparente aggregazione”, comunione è “avere gli altri dentro di sé”. “Ciò che tiene in piedi la vita cosciente – diceva don Luigi Giussani – è il desiderio, più o meno confessato, di una salvezza”. La salvezza è questo sguardo sul limite come spazio di libertà, è questo non avere più bisogno di contenere gli altri, ma di scorgere nella loro singolarità una parola del Mistero, un contributo originale che Dio ha voluto portare alla storia del mondo.
L’attesa del Natale, soprattutto quest’anno in cui molti fenomeni culturali e sociali sono in maturazione, coincide con l’attesa di Uno che possa venire a liberarci, che possa tornare a farci respirare, che possa donare alla circostanza – qualunque essa sia – la dignità di essere vissuta. Che questo avvenga tramite il vagito di un bambino è già una rivoluzione. Dio, infatti, dovendo scegliere come piegare la forza dei suoi figli predatori, ha infatti scelto di compiere un gesto estremo. Quello di iniziare a parlare al loro cuore.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.