Un po’ frastornati per le parole di Mario Draghi rispetto al modello tutto export e conseguente dumping salariale che non funziona più? Non è niente. Fidatevi. Nel fine settimana c’è stato di peggio. Un qualcosa di veramente incredibile. Parole capaci di far sobbalzare dalla sedia qualsiasi persona ancora in grado di unire due puntini fra loro o fare due più due.
Sapete chi è Robert Habeck? È co-Presidente dei Verdi tedeschi. E anche vice-Cancelliere tedesco. E anche ministro dell’Economia e della Protezione climatica. Insomma, uno che conta. E cos’ha dichiarato a una conferenza organizzata dal quotidiano economico tedesco Handelsblatt, chiaramente senza che i media italiani sentissero la necessità di raccontarlo ai propri lettori?
Rispondendo a chi gli chiedeva se il progetto di uscita dalla produzione energetica da carbone entro il 2030 fosse in discussione, Habeck ha risposto così: Sì, per me la sicurezza energetica rappresenta un’assoluta priorità. Ecco, chi continua a sventolare pezzi di carta con le percentuali di riempimento degli stoccaggi, da oggi può fare riferimento a questo. La seconda carica di Governo e leader dei Verdi tedeschi ammette che la sicurezza energetica del suo Paese sia già a rischio. E che dopo la follia dello stop totale al nucleare, la deadline del 2030 – 8 anni prima del previsto – come phase-out totale dal carbone appare quantomeno autolesionistica.
Ora, forse è il caso di porsi qualche domanda. Primo, se ancora i tedeschi garantiranno ai Verdi il superamento della soglia di sbarramento del 5% alle elezioni del 23 febbraio, meritano un TSO collettivo. Secondo, occorre capire – come europei, in questo caso – quanto una simile inversione a U sia soltanto figlia di un mix di irresponsabilità ideologica e dilettantismo oppure qualcosa di peggio. Cioè, la pedissequa recita di un’agenda parallela. Eterodiretta. Ovvero, il verde che persegue Habeck con il suo partito è davvero quello che simboleggia la natura o quanto accaduto fa sorgere il dubbio che sia invece da mettere in relazione con il colore della valuta benchmark mondiale? Perché chiaramente, quelle parole sono finalizzate proprio a limitare i danni in cabina elettorale, visto che si voterà ancora con il freddo nella Germania della calma oscura da solare ed eolica di cui vi ho parlato diffusamente la scorsa settimana e che sta vedendo volare i prezzi dell’elettricità ai livelli massimi del 2022.
Perché dico questo? Perché nonostante lo spegnimento dei reattori sia ancora recente, Robert Habeck ammette una situazione da emergenza prioritaria. Ma preferisce sporcarsi con il carbone, rinviandone l’uscita di scena come fonte primaria di produzione elettrica piuttosto che mettere sul tavolo la vera, unica ricetta, non a caso richiesta a gran voce dalla Confindustria tedesca da due anni. Ovvero, mea culpa e ritorno in fretta e furia al nucleare. Cui prodest che non avvenga, a livello di scontro industriale e commerciale? Perché la Norvegia della russofobia Nato dilagante sta pensando di tagliare i links energetici con l’Europa, proprio a causa dell’aumento dei prezzi interni determinati dall’addio tedesco al nucleare. Mentre la Danimarca si prepara a utilizzare i reattori per uscire dalla situazione di caro-energia che la sta colpendo, dopo aver dato vita a una transizione verso le rinnovabili che doveva essere esempio per tutta l’Europa e che invece si è tramutata in un clamoroso autogol. Proprio ora, mezzo mondo capisce che quell’accelerazione green è stata una follia. L’altro mezzo mondo, purtroppo, comprende le teste d’uovo con residenza politica a Bruxelles. E signori, se viene a mancare Oslo, siamo alle candele.
Infine, occhio a questo grafico e al suo contenuto: chi è stato a imprimere un cambio tale negli equilibri di export energetico europeo con le sue scelte suicide, tali da aver creato prodromi e condizioni per le forche caudine attuali?
Ops, proprio la Germania. La quale da esportatore netto grazie al nucleare si è volutamente tramutata in prigioniero delle dipendenze estere. E finché queste era con quelle con la Russia e Gazprom, tutto andava benissimo. Persino il modello di export che ora Mario Draghi condanna con faccia tosta da competizione olimpica. Ma quando quel flusso è venuto a mancare, un domino. Ricordate a corsa alla nazionalizzazione di Uniper nell’inverno del 2022, resasi necessaria mettendo sul piatto oltre 20 miliardi di euro per scongiurare quella che fu definita la Lehman energetica? E, chiaramente, le sanzioni alla Russia imposte dall’Europa hanno fatto il resto.
Se prima eravamo di fronte a una sindrome di Stoccolma giustificabile dall’ondata emotiva dell’invasione russa, ora con le parole di Robert Habeck siamo ormai al caso clinico. Non a caso, la Bundesbank ha tagliato di netto le stime di crescita sia per quest’anno che per il prossimo. Non a caso, Olaf Scholz appare intento in una camminata sul filo dell’equilibrista, millantando fedeltà eterna alla causa ucraina ma continuando a dire no all’invio di missili a lunga gittata.
Come mai tanto spazio alle parole di Mario Draghi, al solito acriticamente accettate come Vangelo e nemmeno una riga sull’implicito mea culpa del leader dei Verdi tedeschi, quasi quella scelta scellerata non avesse nulla a che fare con il crollo del modello industriale europeo cui stiamo assistendo?
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