Tante notti da perdonare, ma per “attendere un’alba che fa felice il cuore”. Le interviste a personaggi immaginari che Federico Pichetto, sacerdote, direttore della Scuola di formazione teologica della Diocesi di Chiavari, insegnante e vicepreside in un liceo statale di Rapallo, ha raccolto nel suo primo libro, in fondo ci comunicano questo: una speranza che va oltre il dolore e la sofferenza. Le persone (e le storie) che vengono raccontate in Perdonare la notte (Effatà, 2024) sono molto concrete: due coniugi che si separano, il difficile rapporto con i genitori di una donna che si è dedicata alla politica, una centenaria lucidissima nei suoi giudizi sulla vita e sulla condizione degli anziani, il direttore di un carcere minorile e altri ancora. Tutte con i loro problemi, i loro momenti di difficoltà, ma animate dal desiderio di guadagnare un punto di vista che permetta di fare la pace con la loro condizione, anzi di riscoprire il loro io più profondo, di andare al cuore di se stessi. In una prospettiva che non esclude la fede.
I personaggi intervistati nel libro sono fittizi, ma quel che raccontano non è frutto di fantasia, sono situazioni reali. Com’è nata l’idea di articolare così le loro storie?
È come se avessi il desiderio di tornare a parlare a quei dolori. Vedo a volte una fede che si chiude in sé stessa e si dimentica il potenziale che ha di parlare alla vita che soffre, che stenta, che fa fatica. La prospettiva è quella di un libro missionario. E infatti l’esito che sta avendo è questo: persone lontanissime che si sentono interpellate da queste interviste, perché parlano al loro dolore con parole che sono comuni, ma che in realtà vengono dalla tradizione della fede.
È come se gli intervistati si accorgessero di un aspetto che non avevano mai considerato, che la Chiesa e la fede che professa abbiano veramente qualcosa da dire alla loro esperienza. È così?
Sì. Spesso le cose che diciamo sono imbavagliate in parole che le persone non comprendono più. E invece sono parole di vita e, quando le liberi, si apre una possibilità. C’è un bel libro di Louis de Wohl che si intitola La liberazione del gigante. Il gigante oggi è Cristo e, quando lo liberi, raggiungi il cuore di ogni uomo.
Ma perché è stata scelta questa formula particolare, queste interviste immaginarie?
Oggi la soglia dell’attenzione è bassissima e ho pensato che le interviste potessero essere adatte ai miei studenti e non solo a loro. Poi questa formula mi permette di evitare personalizzazioni e sensazionalismi. Le storie raccontate non si sa a chi possono essere successe.
Perché dobbiamo “Perdonare la notte”?
La notte rappresenta i momenti di difficoltà da superare. L’idea del titolo viene dal Cantico dei cantici, quando lei si sveglia di notte e trova il letto vuoto. È quella notte lì da perdonare, quella in cui non trovo più il bene accanto a me nel mio letto.
Cosa accomuna tutti i personaggi? Il dolore, la sofferenza, i momenti di difficoltà che tutti noi abbiamo, chi più chi meno, nella vita?
Sì, infatti è un po’ un viaggio dentro sé stessi. Oggi viviamo in una società che è molto emotiva e per questo mi sembrava giusto parlare proprio alle emozioni delle persone. Tanti parlano alla ragione: io ho voluto farlo all’affezione, arrivando poi anche alla ragione, perché in alcuni brani ci sono anche delle asserzioni astratte. Il punto di partenza, però, è quel dolore lì, quello che può provare chiunque, perché è tipico dell’uomo.
C’è un altro elemento comune ai protagonisti, ed è la gratitudine. Un atteggiamento da riscoprire oggi?
Questa è un’altra grande questione: comprendere che quello che succede nella vita non è una iattura, ma una strada. Queste persone vivono la gratitudine perché comprendono di aver percorso una strada.
A volte ci troviamo ad affrontare le difficoltà della vita lamentandoci per quello che ci è successo. Nelle storie raccontate nel libro emergono i problemi che comporta affrontare certe situazioni, ma l’atteggiamento non è mai quello del lamento. È questo che di solito ci impedisce di superare certi ostacoli?
Involontariamente ho dato a queste figure un po’ quello che è il mio atteggiamento di fronte alla realtà. Sono convinto che quando succede qualcosa non è mai detta l’ultima parola, c’è sempre un altro pezzo di strada da fare. E questo è l’atteggiamento che hanno anche i personaggi del libro, che coincide con la parola speranza.
Oggi ci si arrende di fronte a certe situazioni, penso all’eutanasia e ai casi di suicidio, anche tra i minori. È proprio speranza la parola che manca al nostro vocabolario?
Siamo in una società in cui in qualche misura tutto deve essere consumato e, quando ci si trova davanti al dolore, non c’è più niente da consumare: c’è la disperazione. Invece tutto deve essere sperato, con forza.
Queste interviste, questi personaggi, allora, che tipo di speranza ci lasciano?
La speranza che ci lasciano consiste nel fatto che nessuno di noi è lasciato perdere, è lasciato da solo, ma che tutti facciamo parte di una storia più grande. E che solo degli occhi nuovi e un cuore nuovo ci possono permettere di guardare le cose per come sono e non per come appaiono.
In questi dialoghi emerge anche una difficoltà dei credenti, della Chiesa, a comunicare questa speranza. Qual è la strada giusta per farlo?
Oggi, soprattutto in Occidente, siamo totalmente ripiegati su noi stessi, intralciati da altro. Se invece ci permettessimo di seguire, guardare, andare dietro a Uno che è presente, assisteremmo a un miracolo, a una fioritura, che non dipende da una strategia, ma dal non disperdere ciò che abbiamo – il nostro cuore, l’intelligenza – in qualcosa che ci ingolfa.
È anche colpa di chi questo traguardo lo ha raggiunto e non riesce a comunicarlo agli altri?
Chi è più avanti nella consapevolezza, nel servizio alla Chiesa, ha più responsabilità. Ogni minuto che si passa lontano da questo è un minuto tradito.
(Paolo Rossetti)
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