Che cosa fa nascere l’interesse verso lo studio? Dopo innumerevoli riflessioni e pagine scritte su questo tema, la risposta sembra ancora avvolta nel mistero.
È proprio di fronte a questa domanda che si trovano a confrontarsi coloro che si occupano di soft skills (che è meglio chiamare character skills). Nonostante il numero crescente di studi che evidenziano l’impatto di fattori come l’autodisciplina, la curiosità, l’apertura mentale sulla capacità di apprendere, la risposta definitiva su cosa faccia scattare in un ragazzo l’interesse verso la conoscenza, l’approfondimento e la riflessione rimane difficile da definire.
Qualcuno scrisse che la conoscenza è per il cervello umano ciò che il cibo è per lo stomaco. Ogni insegnante desidererebbe che fosse davvero così, ma sappiamo bene che non lo è.
La personalità umana non può essere compresa né ricomposta semplicemente sommando qualità isolate. Possiamo analizzare e scomporre le diverse capacità in modo meticoloso e accurato, ma non possiamo illuderci che la loro somma riesca a individuare quel “driver” profondo che spinge un essere umano ad affrontare il lavoro della conoscenza e a lasciarsi trasformare da esso.
Chi insegna sa per esperienza che uno studente si muove, cresce e si impegna nello studio soprattutto all’interno di una relazione in cui si sente visto e accettato per ciò che è. Questo è il fattore che potenzia l’autostima e la motivazione all’apprendimento e riduce i tassi di abbandono scolastico, soprattutto tra gli studenti meno brillanti o con esperienze precedenti di insuccesso.
Il cervello umano non funziona come una scatola che immagazzina semplicemente le informazioni che riceve, ma le elabora attivamente. Quando ascolto e studio, ciò che apprendo viene trasformato, diventando parte di me, arricchito dalle mie esperienze, dai miei errori, dalle mie emozioni e anche dalle mie follie.
Gli apprendimenti risultano più solidi quando tengono conto dell’allievo nella sua globalità, senza separare conoscenze, competenze e tratti caratteriali.
Il lavoro educativo, oltre che didattico, che viene fatto in tutte le scuole mira a fare crescere la personalità degli studenti secondo le caratteristiche che madre natura ha dato. Se però si enfatizzano alcune caratteristiche come ad esempio la curiosità, chi non appare curioso può essere un introverso, ma essere introversi ha un valore, perché ad esempio porta ad essere più riflessivi, capaci di analizzare meglio le situazioni, ragionare in profondità.
Non si tratta di introdurre una nuova disciplina scolastica o di valutare direttamente aspetti come l’autocontrollo o la coscienziosità, né tantomeno di imporre un adattamento forzato alle aspettative sociali. L’obiettivo educativo, se vogliamo mantenere la scuola come istituzione formativa, è aiutare gli insegnanti a “istruire educando” e “educare istruendo”. Questo processo richiede anche attenzione alle sfide che l’educazione dei giovani pone oggi agli adulti, come il bullismo, i comportamenti antisociali, la dipendenza dai dispositivi digitali e l’uso precoce di sostanze.
Non è un caso sia stata approvata recentemente anche in Italia una legge sul contrasto alla dispersione scolastica, in cui si aprono sperimentazioni volontarie che fanno leva sulle character skills. Documenti del Ministero dell’Istruzione evidenziano la necessità di integrare nel curriculum scolastico lo sviluppo di competenze relazionali e trasversali, tra cui le character skills, per affrontare fenomeni come la dispersione scolastica.
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