Caro direttore,
con tre amici musicisti, alcuni giorni fa siamo entrati, invitati dal cappellano, nell’infermeria del carcere di Bollate, per animare una festicciola di Natale con detenuti particolarmente provati, quelli che oltre a scontare una pena, sono anche malati. È l’inferno dentro l’inferno, la galera dentro la galera, per dare un’idea vaghissima di ciò che si incontra varcando quella soglia.
Entriamo armati di chitarre, leggii, libretti e borse piene di panettoni, salatini e bibite, quello che normalmente portiamo alle feste con gli amici, con la differenza che è tutto già tagliato e pronto da servire, perché in carcere non entri con nulla, tanto meno posate, che non sia rigorosamente di plastica, con buona pace degli ecologisti. E prova tu a tagliare un panettone con un coltello di plastica! Sì, perché in carcere impari a dimenticare presto gli strumenti più banali della tua quotidianità: le posate, i bicchieri, i piatti, il letto, il tavolo, le sedie, tutto cambia, tutto è ridotto a una misura che poco ha dell’umano. E lentamente ti disabitui alle cose di prima, fino a disabituarti d essere voluto bene, a volerti bene.
“Ma che ci venite a fare, o voi, tra questi animali!”, ci apostrofa così qualcuno alle nostre spalle (con epiteti più coloriti) appena varchiamo la soglia, superando i cancelli. Il benvenuto, quello vero, ce lo fanno le “bestie”, occhi grandi da bambino, volti segnati dall’età, dal dolore e dalla malattia, fisica e psichica, ma soprattutto dalla fame di amore. La riconosco quella fame, perché é anche la mia.
Iniziano i canti: melodie natalizie, classiche, la tradizione americana, i jingle bells, qualcuno chiede se può prendere un pezzo di panettone o un bicchiere di coca (mi stupisco sempre che qui si deve domandare per ogni cosa) ma è con “O mia bela Madunina”, e “Oj vita, oj vita mia, oj core, e chistu core”, che le mani e i cuori si scaldano, cori da stadio, uno stupore e gioia indicibili si impadroniscono di ciascuno, non riconosci più chi è libero o detenuto, un’unità che solo la musica, come una preghiera, è capace di realizzare. È il risveglio dell’umano quello a cui assistiamo, qualcosa di evidentemente sopito, ma che, come brace, sta sempre lì ad attendere qualcuno che ci soffi sopra. Domanda e attesa sono la grammatica del carcere.
E intanto fanno capolino i curiosi, un’infermiera entra per dare le medicine, ma poi resta e canta con noi. La bellezza del canto è irresistibile. Qui, poi, è cosa ben rara.
Alle 11 annunciano il passaggio del carrello (il pranzo elargito dall’amministrazione penitenziaria) e molti scappano per non perdersi la razione quotidiana. In carcere, mi dicono i detenuti degli altri reparti, il carrello è per chi non ha nessun familiare, né alcuna risorsa per procurarsi cibo. Qui, sono scappati tutti. O quasi. Qualcuno, forse già sfamato dalla fetta di panettone, è rimasto. Mi accorgo che ci sono cose per cui vale la pena saltare un pasto. Paola, la nostra cantante, intona il canto finale, “Romaria”, un canto brasiliano che racconta di un uomo, un delinquente, un reietto, che, come ultima speranza di salvezza, decide di mettersi in cammino verso il Santuario di nostra Signora di Aparecida e, non sapendo pregare, porta alla Madre della tenerezza l’unica cosa preziosa, viva e vera, che possiede: il proprio sguardo.
Questa volta il silenzio domina nella saletta. Ciro, il più grosso e scatenato, ora ha gli occhi lucidi e trattiene quasi il respiro per non disturbare. È l’ora dei saluti, dello scambio di piccoli doni, di sguardi, sorrisi e mani che si stringono e quasi non vogliono mollare la presa. Ciro, sempre lui, si commuove e ci lascia con un sorriso e una lacrima, “voi ora ve ne andate”. Anche noi, poveretti e mendicanti come loro, ci sorprendiamo pellegrini, accorsi a portare il nostro sguardo, in questo inaspettato santuario, a Colei che “giuso, intra ‘ mortali, se’ di speranza fontana vivace”.
Usciamo da questo inferno, quasi muti, non servono le parole, come ai due di Emmaus ci arde il cuore e questo basta per guardare ai nostri di inferni con la domanda e l’attesa di incontrare qualcosa e qualcuno che inferno non è.
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