Cercando di guardare all’essenziale, e con gli occhi del cuore, che cosa resta, cosa ci tramanda, cosa ci insegna padre Aldo Trento con la sua vita ben spesa, una vita al servizio di Dio, prima in Italia e poi nei trentacinque lunghi anni vissuti in missione in Paraguay? Innanzitutto, padre Aldo ci lascia il suono indelebile della sua voce, quel tono afono, un po’ strozzato, come di un uomo ferito da qualcosa. E quel tono lì resterà per sempre, come un’eredità, nelle orecchie di chi lo ha ascoltato.
Poi padre Aldo ci lascia l’esempio delle sue virtù, e anche delle sue piccole manchevolezze, quei due elementi che fanno grande un uomo. Sì, padre Aldo era un uomo che pulsava d’amore per il suo prossimo, poi si concedeva due o tre cappuccini il mattino, lavava i piatti per tutti e di notte, anziché dormire, passava lunghe ore davanti al Santissimo. Il diabete lo costringeva a lunghe camminate appena sveglio. Aveva bisogno di tutti e di tutto, senza nasconderlo.
Ci lascia l’esempio della caparbietà di fronte ad ogni cosa, davanti ad ogni contrarietà, ad ogni ostacolo. Una caparbietà dolce e priva di qualsiasi aggressività. Per lui era come se le patate bollenti della vita si dovessero sempre prendere da sotto, col mestolo di legno, per non romperle e, allo stesso tempo, non scottarsi le dita. Padre Aldo si è portato in dote in Paraguay questa sua dolce caparbietà, tutta veneta. Su invito di don Luigi Giussani è andato in un Paese povero e sconosciuto del Sudamerica, che ha percorso in lungo e in largo, su traballanti corriere, per conoscere, gomito a gomito, scossone su scossone, il popolo guaraní. Sarebbe diventato il suo popolo, che lo chiamava padre, in lingua guaraní “paí”. Furono due anni intensi di immersione nella cultura guaraní, di studio della sua storia, delle sue radici. Poi la scoperta dell’arte barocca delle sue chiese. Un tirocinio, una cultura che precedeva e avrebbe reso la sua carità missionaria più vera, più incarnata.
Ed ecco la grande tenerezza di un uomo che ha saputo essere un buon pastore per le sue pecore. Quando entrava in una favela di Asunción, la capitale del Paraguay, padre Aldo spesso ne usciva con un malato in spalla, come si vede in certi quadri del Buon Samaritano. Anche se non c’era posto nel piccolo ospedale della parrocchia di san Rafael, non importava. Il suo cruccio era: come si fa a lasciare lì quella gente a vivere e a procreare in pochi metri quadrati di una baracca? Incominciava a ricoverare la donna, spesso si trattava di malattie incurabili all’ultimo stadio. Lo scopo era ridare dignità alla malattia. Poi si preoccupava di mandare a scuola i suoi bambini. Anche l’uomo che le viveva accanto, spinto da padre Aldo, lasciava donne e stravizi per un matrimonio inaspettato e felice. Un pezzo di paradiso guaraní in ospedale, prima del salto finale. Loro stessi dicevano di essere felici, di avere vissuto come animali e ora di morire come re.
Per il paí prima di tutto venivano i bambini. Quelli nell’ospedale dei piccoli malati, su in alto sopra l’oratorio, perché quelli sani, tutti ben ordinati e con le divise stirate, guardassero sopra e sapessero di loro. Una preghierina. Il reparto dei bambini era il luogo prediletto di padre Aldo, dove avrebbe voluto mettere un letto e una scrivania per sé e non muoversi più. Con padre Aldo nella parrocchia di Asunción la vita rinasceva, e veniva da piangere, e da ridere insieme, a vedere la gioia di questi bimbi. Viene ancora adesso alla memoria, nel pensarci, un brivido di compassione, in tanta aridità che spesso prende il cuore.
Padre Aldo, quando poteva, diceva Messa nella foresta, sopra i resti degli altari dei gesuiti, tra le radici che si mangiavano le fondamenta, le mura di quella che era la “città di Dio”, le reducciones governate un tempo dai guaraní. Padre Aldo era capace di litigare, alla frontiera tra Paraguay e Venezuela, solo per far vedere a te quelle cose lì. Ci lasciava l’anima. Si metteva il suo bel collarino da prete e andava all’attacco. La spuntava sempre lui.
Il popolo del rio Paraná voleva bene a quel “nuovo” paí che gli antenati di certo avevano mandato, nascosto sotto il vestito di un prete italiano. Un prete che si sarebbe perso, come tanti altri preti, nella bufera degli anni Sessanta. E invece quei due mesi d’estate, passati insieme con don Luigi Giussani, sono stati per lui un corso accelerato, un “seminario”. Poi due anni di tirocinio, come si dice, di inculturazione, in un Paese come il Paraguay che oggi è diventato dopo tanti anni il suo Paese d’elezione e dove ha voluto salire in cielo, da quelle stesse stanze d’ospedale dove lui trattava ogni malato come un re.
Padre Aldo aveva uno sguardo così disarmato che non capivi bene se fossi tu a seguire lui o lui a seguire te. Era timido. Ti lasciava spazio. Si muoveva sempre ma senza fretta, senza pause ma senza soste o accelerazioni. Ora, alla fine di questo articolo, posso dirlo. Sono stato una settimana con lui nel 2012, abbiamo girato il Paraguay in lungo e in largo, abbiamo visitato i luoghi della sofferenza, soprattutto siamo stati insieme. La grancia (fattoria estiva) nella rossa terra paraguaiana, le reducciones, affogate nel verde della foresta, le grandi distese terriere. L’oro che gronda da ogni statua e da ogni altare all’interno delle chiese barocche. Le lunghe chiacchierate notturne con i suoi appassionati collaboratori. I piatti da lavare insieme. E l’acqua del rio Paraná che invade le favelas, segno che è ora di ricominciare tutto da capo. Quello che resta nel cuore, dopo aver conosciuto tanto dolore dentro e fuori di un uomo così, è un tesoro difficile da esprimere con le parole. L’oro e il fango, la sofferenza e lo stupore, gli stessi bambini tolti dalle favelas e che giocano nel cortile della parrocchia san Rafael sotto lo sguardo del loro paí.
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