“Israele sta costruendo un nuovo impero in Medio Oriente”? Se lo è chiesto Haaretz, principale quotidiano d’opposizione israeliano, contro cui il Governo di Netanyahu ha scatenato un clamoroso boicottaggio di Stato, ormai apparentemente oltre il rispetto democratico per la libertà di stampa. L’interrogativo, in realtà, sembra già di portata più larga.
I chiari intenti di ri-occupazione di Gaza, dopo la sua sanguinosa distruzione in risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023; la pressione sempre più violenta dei coloni israeliani nei territori cisgiordani; la nuova invasione militare del Libano meridionale al fine di sradicare Hezbollah e ora lo sconfinamento ulteriore oltre il Golan nella “nuova Siria” disegnano senza ombra di dubbio una proiezione “imperialista” da parte di Gerusalemme: sulle mappe di una regione resa strutturalmente instabile proprio dalla fondazione della Stato di Israele nel 1948.
Il bellicismo a tutto campo del Governo di estrema destra pare intanto aver decretato la crisi storica del “diritto di Israele a difendere la proprio sicurezza”: un mantra virtualmente cancellato dal mandato d’arresto per presunti crimini di guerra spiccato contro Netanyahu dalla Procura della Corte penale internazionale. Il passaggio decisivo per il neo-imperialismo israeliano – durante un 2024 che rimarrà critico negli annali geopolitici – sembra però esser maturato lontano dal Medio Oriente.
È stato negli Usa – tuttora centro di gravità di tutti i poteri globali – che Netanyahu ha lanciato e vinto una campagna molto più strategica e impegnativa di quelle condotte dalle forze armate israeliane nei territori occupati dal 1967, nei cieli fra Israele e Iran o sul Mar Rosso contro gli Houti. Il vero successo del “regime Netanyahu” (non sono pochi ormai a giudicare Israele una “democratura” poco distinguibile dalla Turchia di Erdogan) è stato l’abbattimento del presidente americano in carica, il democratico Joe Biden, e la reinstallazione alla Casa Bianca di Donald Trump: già nel suo primo mandato alleato di ferro del premier israeliano.
Il più importante quotidiano americano – il New York Times, storicamente controllato dalla comunità ebraica Usa vicina ai dem – si affanna a ripetere che il 5 novembre i tre quarti degli israeliti Usa hanno votato per Kamala Harris. Ma riesce a malapena a celare il fatto che il quarto restante (che ha ri-votato Trump per la terza volta) includeva la maggioranza degli ebrei americani più influenti nell’establishment politico-finanziario: raccolti attorno al club elettorale Aipac, sostenitori irriducibili del Governo nazionalista-religioso di Gerusalemme. Sono stati loro, fra l’altro, a dettare la repressione delle proteste filo-palestinesi nelle università liberal (peraltro “santuari” dell’intellettualità israelita della diaspora americana). Sono stati loro a imporre al Congresso Usa l’invito allo stesso Netanyahu: che è volato a Washington col piglio del conquistatore, non a caso dando il colpo di grazia alla ricandidatura del presidente dem in carica.
Più di un osservatore si spinge oggi a considerare Israele una sorta di “Stato aggregato” agli Usa, forse in prospettiva il più potente. Un esperimento deciso a suo tempo dal presidente dem Barack Obama (con la nomina a vice-governatore della Fed dell’ex governatore della Bank of Israel, Stanley Fischer, con doppio passaporto) sembra ora in qualche modo in via di sviluppo a livello di più vasta Amministrazione federale trumpiana: dove l’agenda per il Medio Oriente prevede l’adozione finale degli Accordi di Abramo strappati da Netanyahu a Trump 1 nel 2020, con il via libera all’annessione del 70% dei Territori allo “Stato ebraico”. Intanto ridisegnato sul piano costituzionale dalla destra israeliana in chiave di discriminazione etnico-religiosa verso i non israeliti.
Nel frattempo alcuni segnali politico-mediatici indicano nella diaspora europea un nuovo fronte di “reconquista”: sul confine sempre più complesso fra interessi geopolitici di Israele e dinamiche religiose e culturali interne all’ebraismo internazionale, ramificato in continenti e Paesi molto diversi.
È delle ultime ore l’indiscrezione riguardante la decisione di Netanyahu di non volare ad Auschwitz il 27 gennaio prossimo: la scadenza annuale della Giornata della Memoria della Shoah, ormai cementata nei calendari istituzionali e civili dell’Occidente. Il Premier israeliano sarebbe costretto a un forfait ad alto rilievo mediatico dal fatto che l’ingresso in Polonia lo porrebbe a rischio di arresto: Varsavia è infatti fra gli aderenti alla Corte penale internazionale. Il fine di Gerusalemme – alle porte di una scadenza critica – è abbastanza leggibile: mettere sotto pressione un Governo Ue (quello del Paese principale teatro della Shoah) per tentare un’esemplare sconfessione della Corte stessa; per affermare definitivamente – sfondando un vasto fronte d’opinione formatosi anche in Europa dopo la guerra di Gaza – uno “status speciale” di Israele. Uno status prevalente su qualunque stato di diritto nazionale o internazionale e fondato sulla fusione assoluta fra Memoria della Shoah, sionismo (“neo-imperialista”) in Medio Oriente e geopolitica globale di Israele. E chi fosse critico con il Governo israeliano odierno – fosse anche l’Onu o il Pontefice della Chiesa cattolica – verrebbe colpito con severità ancor più estrema dalla fatwa di antisemitismo.
Nello stesso giorno, intanto, in cui Haaretz additava il rischio di una deriva neo-imperialista per Israele, su un quotidiano italiano (il Foglio) è comparso un intervento di un ministro del Governo Netanyahu: Amichai Chikli, delegato alla Diaspora e al contrasto all’antisemitismo. Chikli (esponente del Likud, il partito del premier) ha indirizzato una lettera-appello direttamente a papa Francesco. Nella sua formulazione sintetica (qui tratta dal sito della comunità ebraica di Roma) il titolo è suonato particolarmente secco: “Il Papa chiarisca le sue dichiarazioni su Israele, le accuse di genocidio sono infondate e pericolose”. Un caso di primo livello di incursione aperta del Governo Netanyahu in un Paese dell’Ue, in cui la Santa Sede è un’enclave sovrana. Alla vigilia dell’apertura del Giubileo. All’antivigilia di una Giornata della Memoria che si annuncia particolarmente insidiosa in Italia: dove già l’anniversario del 7 ottobre ha scatenato contro Israele le piazze della sinistra, dalla Cgil ai centri sociali.
L’Italia appare comunque divisa sul caso-Israele, sul piano politico e istituzionale. Il Governo Meloni, pur critico sulla crisi umanitaria di Gaza, è stato finora allineato con gli Usa nel sostegno a Israele. L’opposizione del Pd è invece da sempre poco leggibile: fors’anche perché la segretaria Elly Schlein è figlia di un israelita americano. Il presidente della Repubblica, il “dem” Sergio Mattarella, dal canto suo, non ha fatto mancare la sua attenzione alle proteste giovanili anti-israeliane. E pochi giorni fa ha ricevuto il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, reduce da un incontro con papa Francesco. Al Pontefice – che un mese fa aveva chiesto di accertare se a Gaza sono state commesse o no forme di “genocidio” – era parsa rispondere la senatrice a vita Liliana Segre: che ha negato che a Gaza sia avvenuto qualcosa di assimilabile all’Olocausto ebraico – giudicato di fatto storicamente unico -, ma anche ad altri eccidi di massa contemporanei come quello armeno o quello cambogiano.
Dalla comunità ebraica nazionale (in particolare dalla loro Unione) continuano intanto a giungere segnali nettamente prevalenti di sostegno a Netanyahu. Ma non mancano voci dissonanti. Non sono passati inosservati, nei mesi scorsi, né Gaza del giornalista Gad Lerner, né Il suicidio di Israele di Anna Foa, storica della Sapienza. Quest’ultima ha espressamente registrato che sul Gaza “la diaspora europea tace clamorosamente, tranne voci davvero isolate”. Nel ricostruire le origini complesse dei “sionismi” contemporanei, Foa si sofferma sull’incorporazione della Memoria della Shoah nell’identità dello Stato di Israele: avvenuta solo nel 1961, con il processo Eichmann. Negli anni precedenti, annota la storica, “i sionisti che si accingono a dar vita allo Stato di Israele hanno scarsa considerazione per quella massa di sopravvissuti che approdano in Palestina non perché orgogliosamente sionisti ma perché semplicemente non hanno più altro posto dove andare”. È il processo al criminale di guerra nazista – operazione politica “magistralmente ideata da Ben Gurion”, fondatore di Israele nel 1948 – a sanare una frattura interna alla prima società israeliana: quella che “contrapponeva le destre ai laburisti, accusati di non aver fatto abbastanza per salvare gli ebrei europei durante la Shoah”.
Sul ritorno dell’antisemitismo in Europa, Foa ai mostra d’altronde tanto preoccupata quanto pensosa. “Che fare – si chiede – quando gli studenti, anche adottando parole d’ordine che possiamo definire antisemite , si battono contro dei veri e propri massacri? Limitarci a denunciarli come antisemiti? Non riesco a non riconoscere in molte di queste loro parole d’ordine, sia pur confuse e inadeguate, l’insegnamento che ha fatto parte del nostro percorso memoriale: che la Shoah debba essere in insegnamento e un monito per tutti i genocidi; che questo non debba succedere più a nessuno, non solo agli ebrei”.
Su questo sfondo inequivocabilmente profondo e drammatico per la diaspora ebraica in Europa, può sembrare perfino un gioco da salotto elitario l’attacco di Le Figaro a Le Monde: protagoniste le due principali testate giornalistiche francesi, sul fronte moderato e su quello progressista. Entrambe sono da settimane in trincea per raccontare la grave crisi del loro Paese, non solo politica. Eppure questo non ha impedito al Figaro di concepire e realizzare in questi giorni una “operazione giornalistica speciale”: una singolare inchiesta – largamente basata su testimonianze anonime – sul malessere crescente nella redazione del concorrente.
Il disagio – in un corpo giornalistico storicamente ricco di presenze israelite – sarebbe legato ai modi impressi alla copertura della crisi in Medio Oriente dal redattore capo Benjamin Barthe. Un curriculum di giornalista militante di sinistra, a lungo inviato di Le Monde nell’area (soprattutto Libano, Siria e Territori), Barthe ha sposato Muzna Shihabi: palestinese, vissuta a Ramallah per un ventennio e cresciuta come attivista per la causa del suo popolo. Ci sarebbe questo alla radice di un clima “paura e omertà” denunciato da Le Figaro nelle stanze di Le Monde. E questo risuona nei circoli politico-mediatici di una Parigi dove nessuna dimentica che un’intervista pressoché unica rilasciata da Netanyahu a un giornale europeo dopo il 7 ottobre è comparsa, appena due mesi fa, su Le Figaro. Vi si accusava il presidente francese Emmanuel Macron di “distorcere dolorosamente la storia”. All’indomani dell’invasione del Libano e dell’ennesimo no a una tregua a Gaza, Macron aveva giudicato non più rinviabile un embargo internazionale nella fornitura di armi a Gerusalemme. Pochi giorni dopo scoppiava – fra Israele e un altro Paese europeo, la Germania – il cosiddetto “caso Bibileaks”.
All’inizio di settembre la Bild – il più diffuso quotidiano tedesco, di orientamento conservatore – aveva pubblicato come scoop un documento attribuito ad Hamas, contenente dettagli sulla preparazione dell’attacco del 7 ottobre, costato a Israele 1.200 vittime e 200 ostaggi. Due mesi dopo un’inchiesta giudiziaria in Israele ha rivelato che nel leak di carte altamente classificate dell’intelligence militare risultava coinvolto un collaboratore diretto di Netanyahu: con il fine presumibile di contrastare la pressione politico-mediatico a favore di una tregua a Gaza dopo l’uccisione (forse da “fuoco amico”) di sei ostaggi israeliani nella Striscia.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.