Caro direttore,
non ho mai parlato così tanto con un muro come nel giorno di Natale: per quasi diciassette anni, ho trascorso Natale sotto le coperte, finestre oscurate da un telo, tappi nelle orecchie. Quand’ero bambino – anch’io sono stato bambino – facevo il conto alla rovescia per vedere quanti giorni mancavano a Natale: da quando sono in carcere il giorno di Natale faccio il conto alla rovescia dei minuti che mancano perché Natale finisca. Perché il Natale io avrei tanto voluto che sparisse come giorno nel calendario. È uno di quei giorni che fanno male agli occhi: di troppa felicità, quando non sei felice, si soffre. Fa male al cuore: non esiste nulla di più triste che svegliarsi la mattina di Natale e accorgersi che si è soli: nella propria cella, al mondo, in guerra anche con se stessi.
Per quanto mi riguarda, poi, Natale è una ferita che sanguina doppio: il gesto per il quale sono condannato, quella maledetta volta io l’ho compiuto il giorno di Natale. Nessun calendario, in nessun posto al mondo, potrà mai ripulire Natale dalla malinconia e dai brutti pensieri. Se trovassi, la mattina di Natale, il più bell’albero di Natale nella mia cella, ancora sarei triste perché se non riesco a trovare Natale nel mio cuore non riuscirò mai a trovarlo sotto nessun albero. Quando, quella volta, ho ucciso – perché io, purtroppo, ho ucciso – ho ucciso il Natale per sempre.
In carcere il Natale è il giorno più triste dell’anno: c’è l’angoscia che, come un’amante testarda, ti aspetta il giorno della vigilia e ti sequestra il cuore per le quarantott’ore a seguire. Minuto dopo minuto è come se lei ti passasse con la cartavetrata sul cuore, grattandogli via la pelle. Non ti tocca, ma ti spacca con immagini che spaventano: le tavolate di Natale, le musiche piene di suoni e di emozioni, volti di bambini pieni di sorpresa, supermercati abbelliti a festa. C’è tutto un mondo che a te che sei prigioniero in una cella fredda ricorda al mondo chi sei: non un carcerato. Non un condannato, non un colpevole: sono cose che già sai. Ti ricorda, bastarda com’è, che tu sei rimasto solo il giorno di Natale. E quando penso a questo, mi pare di risentire la voce di mia madre, che non c’è più: “Bambini, non importa cosa trovate sotto l’albero. Ciò che farà la differenza è chi troverete attorno all’albero a Natale”. Nella mia cella, a Natale, per anni non ho trovato nessuno: ho trascorso il mio Natale parlando con quel maledetto muro che, mi perdonino gli ebrei, è il vero Muro del Pianto della mia storia.
Una frase del Vangelo, letta nel tempo di Natale, mi ha sempre colpito: l’ho considerata una sorta di fotografia dei miei natali. Quella che dice che per Gesù non c’era posto da nessuna parte quando doveva nascere. A motivo di quel che ho commesso, pensavo fosse la frase da mettere nella mia epigrafe: ero uno di quelli che, anno dopo anno, era convinto di scontare i suoi Natali in carcere fino all’ultimo giorno. Quest’anno, invece, Natale lo passerò in una famiglia.
Dovrei scoppiare di gioia al pensiero che invece di un muro troverò dei volti, dei sorrisi, sprazzi di quella vita che pensavo non fosse più vita. Invece ho tanta paura: dopo anni che sei abituato che nel mondo non c’è più posto per te, trovarsi una porta che si apre è un disastro per il mio cuore acciaccato. Potessi dirglielo di persona a papa Francesco, gli direi che la vera Porta Santa che si aprirà non sarà quella di San Pietro, nemmeno quella di un carcere: la mia Porta Santa sarà quella di questa casa che, a Natale, troverò aperta. L’uomo convinto di non avere più un posto nel mondo, troverà il Natale che non avrebbe mai sognato di ritrovare.
Giuro: sono giorni che non penso ad altro. Perché se per qualcuno la vera notizia (di questa notizia) è che un uomo carcerato possa uscire a Natale, per me la notizia è che una famiglia, a Natale, apra la sua porta per festeggiarlo con me. Con qualcuno che, uccidendo, pensava di avere ucciso la vita per sempre. Avete ragione: non merito questa gioia. Però io di questa gioia avevo tanto bisogno: per continuare a credere che la speranza non è un’illusione.
Antonino,
Carcere “Due Palazzi” di Padova
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