Non si può che esprimere la massima solidarietà con la collega Cecilia Sala che dal 19 dicembre risulta detenuta in Iran nel carcere di massima sicurezza di Evin, a Teheran, luogo dove sono transitati migliaia di dissidenti iraniani e dove molti, purtroppo, sono spariti nel nulla.
Cecilia Sala, giornalista del Foglio e di Chora Media, ha alle spalle una lunga serie di reportage da aree di crisi – dal Venezuela all’Afghanistan – e doveva rientrare in Italia la scorsa settimana dopo aver incontrato ed intervistato alcuni esponenti dell’opposizione al regime, ma è stata prima fermata (si presume a poche ore dal rientro) e poi arrestata, per imprecisati capi d’accusa.
In Iran essere giornalista e per giunta donna è già di per sé motivo di sospetto, nonostante – così riportano le agenzie – Cecilia avesse un visto da giornalista, e quindi non avesse nascosto il motivo del suo viaggio alle locali autorità sciite.
In queste situazioni – che sottolineano ancora una volta l’oscurantismo del regime di Teheran – è da una parte buona cosa pubblicare la notizia e sottolineare l’attenzione dell’Italia al suo caso, ma dall’altro l’esperienza insegna come se si vuole arrivare ad una rapida liberazione dell’ostaggio (perché è chiaro che Cecilia Sala non ha fatto nulla di riprovevole, salvo il suo dovere di giornalista) è parlarne il meno possibile ed accelerare al massimo le trattative.
Intanto ha fatto bene la Farnesina ad inviare subito in visita alla prigioniera l’ambasciatrice italiana in Iran Paola Amadei, visita che – in gergo diplomatico – è un segno di estrema attenzione al caso. Gli ambasciatori, infatti, non vanno (quasi) mai a visitare italiani prigionieri (se è presente un consolato italiano, come a Teheran, questo è specifico compito dei consoli) e quindi il gesto va interpretato come una sorta di “habeas corpus” della detenuta. In altre parole il governo italiano ha sottolineato al massimo livello agli iraniani che non intende disinteressarsi del caso, che l’attenzione è massima e che Teheran non deve fare scherzi.
Il problema è che non sappiamo i veri motivi dell’arresto della giornalista in un momento in cui il governo di Teheran è pesantemente in crisi dopo la perdita dell’alleato siriano ed il moltiplicarsi degli atti di insubordinazione da parte di molti cittadini (e cittadine iraniane, perché le donne stanno diventando il primo problema nella retrograda ed integralista società sciita). Di solito bloccare un giornalista è segno di voler creare un precedente, ma soprattutto avere tra le mani un prigioniero “trattabile” in cambio di qualcosa e noi non ne sappiamo il perché.
Può essere successo, per esempio, che i nostri Servizi abbiano bloccato qualche iraniano in tour terroristico nel nostro Paese, oppure che il gesto serva agli ayatollah perché avevano bisogno di una merce di scambio, oppure che era stato chiesto qualcosa al nostro governo che è stato rifiutato. Al momento tutto è possibile e solo i precedenti possono aiutarci a capire.
In Iran si sparisce nelle prigioni e si può essere accusati di tutto senza prove, dallo spionaggio alla “attività sionistica” ed essere condannati a morte dalle corti islamiche senza nessun scrupolo, salvo – soprattutto nel caso di stranieri – essere poi lasciati a marcire in una cella magari per anni in attesa di qualche scambio o ricatto internazionale.
Uno dei casi più noti è quello di Ahmadreza Djalali, un docente universitario con nazionalità svedese che ha lavorato a lungo in Italia insegnando terapia medica d’urgenza all’Università di Novara e che, rientrato in Iran per salutare i genitori, è stato arrestato e condannato a morte nel 2017 per presunto spionaggio ed è tuttora in attesa della forca. Da 3.200 giorni Djalali è in galera in condizioni umane terribili, la sentenza capitale è di volta in volta rinviata “sine die” basandosi su una “confessione” di aver svolto attività spionistica a favore di Israele. Ovviamente sotto tortura si estorce di tutto, ma neppure la Svezia è riuscita ad ottenerne la liberazione e ancora pochi mesi fa – in occasione di uno scambio di detenuti – Teheran si è rifiutato di inserire Djalali nel “pacchetto”.
Speriamo non sia questo il caso di Cecilia Sala e che quindi la crisi possa risolversi velocemente. Sicuramente ci sarà un prezzo da pagare (questa volta un prezzo politico e non “cash” ed questa l’unica differenza se ti arresta un governo rispetto a un rapimento da parte di una banda di tagliagole), ma la sostanza non cambia.
Difficile, almeno per ora, che scatti un nuovo caso Regeni, ma solo per il fatto che Cecilia Sala è viva e difficilmente potrà morire in cella “per cause naturali” o procurate, vista l’attenzione che si è sviluppata sul suo caso. Il fatto che Teheran le abbia permesso di telefonare a casa significa poi che Cecilia non doveva “sparire” per aver visto o sentito qualcosa che non avrebbe dovuto. In questo caso sarebbe stata eliminata in silenzio e senza clamori: gli “incidenti” sono sempre dietro l’angolo. Più facile invece l’avvio di una trattativa, di uno scambio, arrivando alla fine all’espulsione dal Paese, speriamo presto.
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