La Corte di Cassazione ha detto ancora no alla riapertura del processo che ha visto Rosa Bazzi e Olindo Romano condannati per l’omicidio di 4 persone avvenuto a Erba nel 2008. Proseguono invece le nuove indagini per appurare se è proprio Alberto Stasi l’autore dell’omicidio di Chiara Poggi uccisa a Garlasco nel 2007. Sono due processi per i quali la parola fine non è ancora stata pronunciata (i difensori dei due coniugi lombardi hanno preannunciato che impugneranno la sentenza della Cassazione avanti la Corte europea dei diritti dell’uomo).
Cosa accomuna i due processi, oltre al fatto che si tratta di fatti assai remoti? La gravità delle imputazioni, la mancanza di una prova di responsabilità degli imputati certa e inconfutabile e il grande rilievo mediatico. È chiaro che quanto più un caso giudiziario colpisce la sensibilità dell’opinione pubblica, quanto più gli indizi, pur molteplici, non sono univoci e quanto più il processo sale agli onori della cronaca, tanto più frequenti sono i tentativi di riaprire il caso.
Diverse sono però le strade intraprese per cercare nuove prove, diverse le forze in campo e diversi quindi i possibili esiti di tali tentativi.
Per la strage di Erba sono stati i difensori degli imputati (sia pure supportati da un parere favorevole di un sostituto procuratore generale, peraltro delegittimato dal suo superiore gerarchico) che hanno dovuto prendere l’iniziativa e percorre l’impervia strada della revisione; istituto processuale che richiede l’individuazione di nuove prove che, da sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto.
Purtroppo, nel nostro sistema giudiziario, non solo le indagini difensive sono più complesse perché i mezzi e le risorse a disposizione dei privati sono di norma limitati, ma anche le prove raccolte dalla difesa sono poi valutate dai magistrati con un filo di diffidenza e sospetto.
Per l’omicidio di Chiara Poggi sono invece scesi in campo i pubblici ministeri di Pavia, che hanno aperto una vera e propria nuova indagine a carico di un nuovo (a dire il vero non del tutto) indagato.
La differenza non è di poco conto, se solo si pensa che la Procura della Repubblica per svolgere le indagini gode di risorse pressoché illimitate e di strumenti di indagine assai più penetranti (si pensi ad esempio alle intercettazioni telefoniche) oltre che dell’ausilio delle forze di Polizia che, quali pubblici ufficiali, hanno ben altre possibilità di cercare ed acquisire prove.
I difensori di Stasi, anni or sono, per raccogliere il Dna del già allora sospettato Sempio dovettero ricorrere ad un trucco. Oggi la Polizia, a seguito di un provvedimento dell’autorità giudiziaria, lo ha obbligato a sottoporsi al prelievo di materiale biologico.
E ancora: se un avvocato vuole interrogare una persona informata sui fatti lo può invitare in studio per interrogarlo, ma questi può rifiutarsi. Mentre lo stesso testimone se è convocato dal Pm o dalla Polizia è obbligato a rispondere. Insomma i due processi stanno seguendo strade molto diverse per raggiungere un medesimo obiettivo: accertare la verità. Anche a distanza di anni.
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