Tra pochi giorni a Gerusalemme si apre una mostra sul romanzo-principe del Novecento, Vita e Destino, e sul suo autore, Vassilji Grossman. L’iniziativa è in sé bellissima, per il luogo e l’eccezionalità del suo contesto, ma è anche notevole in quanto frutto del paziente lavoro di un Centro culturale di Torino, il Piergiorgio Frassati, che da un paio d’anni, in collaborazione con la Fondazione arte storia cultura ebraica, ha riaperto il discorso su una delle narrazioni più importanti del nostro tempo, proponendo la mostra itinerante (che in terra d’Israele è promossa dalla Compagnia delle Opere di Gerusalemme), convegni e presentazioni, e un ottimo volume di saggi grossmaniani.
Vita e Destino è un capolavoro che dovrebbe essere adottato come libro di testo in tutte le scuole superiori italiane (proposta per il ministro Gelmini), per tre ragioni. Innanzitutto il tema storico-ideologico del Novecento e dei suoi orrori (oggetto anni fa di un tremendo discorso di Giovanni Paolo II ai giovani radunati a Denver). Il suo nucleo evidente è l’analogia tra nazismo e comunismo, una tesi che sebbene considerata inopportuna da molti ambienti, anche da quelli meno inclini al politicamente corretto, ha comunque fatto strada. Insomma grazie a Grossman non c’è solo Hobsbawn e il suo fortunatissimo Secolo breve a dettare l’interpretazione storica ufficiale. Valga l’esempio de Le benevole, grandioso e discusso romanzo di Jonathan Littel, al centro di un recente caso letterario mondiale: un resoconto “stenografico”, allucinato e fin troppo estremo, del nazismo “vissuto dal di dentro” da un ufficiale delle SS. Ebbene la parte dedicata alla battaglia di Stalingrado è un ricalco volontario di Vita e Destino, con episodi simili e la riproposta quasi letterale del celebre dialogo tra l’ufficiale nazista e l’ufficiale comunista (“in fondo siamo la stessa cosa…”).
Un altro tema che giganteggia in Grossman è quello della libertà dell’uomo. E’ grazie ad essa che proprio a Stalingrado la guarnigione russa riesce a resistere davanti alla forza pazzesca dell’armata tedesca sulla striscia di terra lungo la riva del Volga. Una libertà che non durerà molto: Grossman viene richiamato dalla sua missione di inviato per “Stella Rossa” e gli eroi della guarnigione messi sotto silenzio. Le cronache del giornalista Grossman e le testimonianze di quei soldati sdruciti davano fastidio (e infatti la pubblicazione del romanzo venne vietata). La libertà è l’enigma che attraversa tutta l’epopea. L’uomo può scegliere, non è schiavo delle circostanze, non è un prodotto degli antecedenti. Anche nella condizione peggiore, quella della reclusione nel campo di lavoro (altra parte del libro) io posso dire di no, posso non essere complice, posso decidere per il bene anche quando il male mi sta sommergendo.
Infine, la ricerca dell’uomo, la sua perenne domanda di senso. Un grande intellettuale del nostro tempo, George Steiner, riconosce che l’uomo è “qualificato” proprio dal suo continuo interrogare e cercare, ma afferma anche che tutto è inutile: già sappiamo che non avremo risposta, che “non andiamo da nessuna parte”. Grossman dice invece che l’umano emerge nella lealtà del cercare, nella sincerità di una ragione aperta. La strada che ci porta da qualche parte passa di qui.