Nell’attuale crisi di origine finanziaria il dibattito rischia di fermarsi a livello economico, mentre molti elementi inducono a pensare che sono in gioco questioni cruciali per gli stessi valori alla base della convivenza. Infatti molti degli errori che stanno alla radice di questa crisi nascono da una distorsione del rapporto tra uomo e realtà.
Si è pensato che la finanza potesse generare valore e ricchezza prescindendo da un loro corrispettivo reale legato a un valore d’uso di beni e servizi che solo può generare il loro valore di scambio non drogato. Si è ritenuto che i finanzieri, quasi nuovi alchimisti, potessero rispondere magicamente al pur giusto desiderio di migliorare le condizioni di vita di larghi strati della popolazione (es. mutui per case, credito al consumo) superando il limite imposto dalla realtà e dalla effettiva capacità personale e familiare di generare reddito, in grado di restituire prestiti ricevuti.
Si è concepito uno sviluppo che potesse prescindere dall’equilibrio tra tutti i fattori della personalità del singolo e dell’umanità nel suo complesso, dalla necessità di preservare e incrementare i suoi legami religiosi, familiari, sociali e di rispettare l’ambiente in cui si vive.
Si sono considerati ininfluenti i valori umani per la vita economica, per scoprire oggi che la conseguenza più grave della crisi finanziaria è una perdita generalizzata di fiducia (etimologicamente anche alla radice del “dar credito” in senso economico), fondamentale non solo per la vita personale, ma anche per l’economia reale, per la possibilità di investire, consumare, perfino fare transazioni economiche e finanziarie e per i rapporti fra stati.
Già dieci anni fa, nell’aprile del 1998, don Giussani scriveva su un quotidiano nazionale che «l’unico dio reale nella società di oggi è il soldo. Eppure tutto il potere in atto, nella sua impotenza, sembra tante volte non offrire neanche un accenno di speranza per il popolo. Così che gli uomini, quando guardano l’orizzonte, e anche il cielo, debbono accusare paura. E anche i più saggi del mondo, coloro che passano per ispiratori della verità dell’uomo e del benessere del popolo, i guru, non sanno che fare».
La risposta a questa crisi non può limitarsi quindi alle pur sacrosante misure per rilanciare l’economia, ad una fiducia fideistica nella capacità di autoregolamentazione del mercato o al rilancio di un intervento statale che, se fatto senza criterio, incrementerà quello statalismo già tanto pernicioso verso la capacità di iniziativa e di aggregazione sussidiaria degli uomini.
Mentre si ricercano nuovi e più adeguati modelli economici, occorre ascoltare il monito contenuto nel discorso che il papa ha rivolto al mondo della cultura a Parigi, secondo cui l’economia non può prescindere dai valori fondamentali dell’uomo nella sua integralità. Un duraturo ed equilibrato sviluppo economico può nascere solo dal desiderio di verità, giustizia, bellezza, che alberga nel cuore dell’uomo e che neanche la corruzione del suo limite e del suo peccato possono distruggere. Questo desiderio, educato per secoli nell’esperienza della Chiesa, coltivato in realtà sociali e popolari ad alto connotato ideale, socialista o liberale, ha generato nel nostro Paese un mondo di piccole, medie e grandi imprese, attente a innovazione e progresso, uno sviluppo attento a carità e solidarietà, una miriade di famiglie e realtà sociali capaci di farsi carico di molti bisogni personali e collettivi, una democrazia ad alto tasso di partecipazione, un sistema in cui la salute è statisticamente tutelata come in pochi altri punti nel mondo. Per anni si è pensato che questo portato religioso o ideale in ambito economico e sociale fosse il passato: ma il degrado, già presente nel nostro Paese anche prima della crisi economica, dipende invece dall’abbandono di questa esperienza ideale, personale e sociale. Oggi questa è invece la nostra grande risorsa per ripartire di fronte alla crisi, con rinnovata fiducia e speranza.