A volte si leggono delle espressioni che, nella loro semplicità ed efficacia, appaiono definitivamente espressive di una situazione, di un momento storico, di uno stato dell’umano. A me è capitato recentemente di fronte a un’intervista concessa da André Gluksmann a Il Giornale. Descrivendo il suo impegno attuale, il filosofo francese dice: «La sfida al nichilismo è la più vasta, la più profonda, la più intima delle prove contemporanee». E accenna al fatto che, in questa lotta, ciò che occorre fare è dar voce ai «dissidenti del nichilismo». Eccola l’espressione sintetica ed efficace: «dissidenti del nichilismo».

Nichilismo è una parola che ormai ha travalicato il contesto filosofico e la discussione teorica, per finire nel linguaggio comune. Con essa si descrive qualcosa magari di vago e generico, ma in fondo preciso nella sua radice. La radice stessa della parola: nihil, nulla. Come a dire che non c’è niente che valga, niente che consista. Non i rapporti interpersonali resi labili dalla facilità e superficialità del loro farsi e disfarsi; non la verità, sostituita dal cicaleccio delle opinioni; non il destino della vita, che in fondo sembra rotolare verso il buio e scomparire. È come se una gigantesca ma impalpabile nube tossica abbia invaso i pensieri, gli affetti, le azioni, il lavoro, rendendo tutto così fragile da sembrare sempre lì lì per disgregarsi, sull’orlo, appunto, del nulla. Come, altrimenti, spiegare l’incredibile aumento dell’uso di stupefacenti tra adulti che lavorano, guadagnano, hanno una buona posizione sociale? Oppure la gravissima crisi educativa, la cui ultima causa è il fatto che sembra non ci sia nulla cui educare?

Ma non è sull’analisi del nichilismo – che ha molti altri volti e sfumature – che voglio soffermarmi. Piuttosto la frase di Gluksmann è interessante perché afferma la possibilità di un dissenso rispetto a tale nichilismo. Giuseppe Galasso su Il Corriere della Sera ha commentato che per opporsi al nichilismo non basta il dissenso: «Al nulla non si può opporre solo la sua negazione, ma un positivo, alternativo e persuasivo». Ma, a ben guardare, quando uno si oppone al nulla lo fa già in nome di qualcosa di diverso dal nulla stesso. Magari è solo l’intuizione di un bene cui non sa dare nome, magari è soltanto il disagio che sale dal profondo e che impedisce di rassegnarsi. Magari è un piccolo gesto di costruzione positiva in un contesto distruttivo.

Vaclav Havel, il grande «dissidente» cecoslovacco racconta ne Il potere dei senza potere, che il semplice fatto che un venditore di verdura si rifiuti di esporre sopra il prezzo dell’insalata una frase inneggiante al regime totalitario è una speranza per tutti, è un gesto di positivo dissenso dal nichilismo. Così i monaci di cui ha parlato Benedetto XVI a Parigi: semplicemente stanziandosi in un posto mentre tutti vagabondavano senza meta, dissodando terreni che nessuno curava più, stringendo legami amichevoli quando tutto intorno era violenza, si sono opposti al vortice del nulla che distruggeva una civiltà. E ne hanno costruito un’altra.

Ecco, i «dissidenti del nulla» sono quelli che hanno il coraggio di porre fatti positivi. Che diventano segni di speranza per tutti. Nei prossimi giorni cercheremo di raccontare la storia di qualcuno di questi «dissidenti».