Tra un mese (10 dicembre) ricorre il sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. L’articolo 18 afferma: “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo; la libertà di manifestare isolatamente o in comune, sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo, nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”. Le parole, che sono poste a fondamento della stessa esistenza dell’Onu, sono chiare e dirette. Fino ad ora il compleanno della Dichiarazione non ha avuto l’attenzione che merita, se si eccettua un grande discorso del Papa Benedetto XVI tenuto alle Nazioni Unite in aprile (nel quale, tra l’altro, diversi paragrafi sono dedicati al “diritto” di ricevere e dare protezione: ma nel grande palazzo sull’East River di New York, così come in quasi tutte le capitali mondiali – non si può avere soltanto l’Onu nel mirino – se ne saranno dimenticati, vista l’allucinante accidia dimostrata davanti ai massacri del Congo). Dovremmo tornare a leggere per bene la Dichiarazione. Una volta, nelle scuole elementari dell’aborrito maestro unico e del grembiulino blu o nero, si parlava parecchio dei testi e dei sistemi fondanti il Dopoguerra mondiale. Era il tempo della Speranza e dunque anche i bambini italiani avevano dimestichezza con i grandi luoghi e le grandi parole della seconda metà del secolo. Ma in questo campo mentre i bambini di oggi sono degli analfabeti, i bambini di allora lo sono ridiventati. Occorrerebbe che tutti riprendessero in mano quel testo, insieme a quello del Papa. Capiremmo il valore reale, pesante, storico della libertà religiosa. Molti, per annacquarla, le affiancano i concetti di libertà di coscienza, più largo e più vago, oppure di libertà di culto, più stretto e più innocuo. Ma nella Dichiarazione che dovrebbe fondare la storia recente del nostro pianeta, le espressioni sono precise, immediate, evidenti. E’ che in questi decenni il mondo si è diviso, forse involontariamente, proprio sulla libertà religiosa: in Occidente è diventato l’inutile accessorio di un’automobile già dotata di ogni optional: non sappiamo che farcene; l’aggettivo ha messo in ombra il sostantivo, per noi la libertà religiosa è una cosa da Paesi poveri, qui ci teniamo tutte le libertà e buttiamo tutte le religioni. Mentre l’Oriente, in particolare quello dell’India e dei paesi a maggioranza islamica, la libertà religiosa nella chiara accezione della Dichiarazione condivisa dai 191 Paesi membri dell’Onu è tuttora un tabù; si tengono stretti alla religione buttando tutte le libertà. Un tabù, del quale si parla con fatica e imbarazzo, cambiando il discorso, girando la testa dall’altra parte, usando metafore.
Una settimana fa, il giorno dell’elezione di Barack Obama, è stata presentata l’edizione 2008 del Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo, curato da “Aiuto alla Chiesa che soffre”, un’opera di diritto pontificio. Anche le oltre cinquecento pagine del Rapporto sono scritte con parole chiare e dirette. Paese per Paese, dall’Afghanistan allo Zimbabwe, le schede presentano la situazione della libertà religiosa relativamente a tutti i culti. Pertanto non è un’opera confessionale, poiché si basa “sull’insopprimibile anelito di ogni essere umano alla ricerca della verità” (pag. 4). A curare il Rapporto sono dei cattolici. La lettura è di eccezionale interesse. L’indicatore della libertà religiosa fa conoscere un Paese almeno quanto la crescita del Pil o dell’andamento della popolazione. Ma i nostri giornalisti e i nostri politici sono distratti. Se si eccettua lo spazio dato dalla benemerita stampa cattolica, in particolare l’Osservatore Romano, il Rapporto è passato inosservato. Non abbiamo visto agitarsi direttori di testata, commissari europei infiammarsi di sdegno, rettori e collettivi di università urlare nei megafoni, presentatori di talk show (nelle tv italiane ce ne sono sei-otto), porgere l’argomento sia pur educatamente.
Eppure, sfogliare quelle pagine lascia di stucco: è questo il nostro mondo? questo stiamo preparando per i nostri figli?
In Oriente e in Occidente sembra una questione che interessa solo un manipolo di cattolici, incluso il loro capo. Sono rimasti gli ultimi strenui difensori della Dichiarazione, che dal dicembre 1948 avrebbe dovuto inaugurare una nuova era, perché sono gli unici a pensare che “pensiero, coscienza e religione” sono indissolubilmente legati alla natura più intima e profonda dell’uomo e pensano così perché amano l’uomo senza riserve e senza distinzioni. Così, quando vedono calpestate le libertà connesse alla sua natura, non possono stare fermi e zitti, si infiammano di dolore e compassione.
(A proposito, il Rapporto segnala anche buone notizie: in Azeirbagian la libertà religiosa è migliorata)