ELUANA/ L’ultima speranza è caduta di fronte a una sentenza assurda

Ciò che è innegabile è che nessuna malattia, nemmeno la più grave, può privare un uomo o una donna della dignità che le è propria, né sospendere i diritti fondamentali o erodere il diritto alla vita

È caduta anche l’ultima speranza. La speranza di salvare una vita, di non interrompere il suo corso. Ha tutto il sapore di una condanna a morte quella cui abbiamo assistito venerdì sera, quando si è diffusa la notizia che la Corte di Cassazione si era pronunciata definitivamente sul caso di Eluana Englaro, la giovane lecchese in stato vegetativo persistente a seguito di un incidente stradale dal gennaio 1992. La Cassazione ha respinto il ricorso presentato nel luglio scorso dal pubblico ministero presso la Procura Generale della Corte di appello di Milano.



 

Una condanna gelida, fredda, calcolata appuntata sulle carte – ventun fogli – di un documento che, di fatto, avvalla la decisione del padre di Eluana, Beppino Englaro, di interrompere l’alimentazione, l’idratazione e, quindi, la vita della giovane donna.

Mentre la richiesta della Procura è stata giudicata «priva di legittimazione», di fronte alle crude parole della sentenza che chiude una vicenda giudiziaria durata quasi diciassette anni si è inneggiato alla “soluzione logica”, alla “sentenza ineccepibile, perfetta”. E ora resta solo il silenzio attonito di chi non può far altro che ascoltare un giudizio senza alcune possibilità di appello.



Il complesso iter giudiziario mediante il quale si è arrivati a questa condanna a morte non può che lasciare sconcertati anche sotto il profilo prettamente giuridico.

Siamo di fronte, infatti, a uno stravolgimento della Costituzione repubblicana. Dall’art. 2 della Costituzione dottrina e giurisprudenza desumono la tutela del diritto alla vita. A sua volta l’art. 30 della stessa stabilisce che è dovere dei genitori mantenere i figli. Come può un giudice sostenere che nel concetto di mantenimento dei genitori rientra l’uccisione della propria figlia?

E, su un piano ancora più generale, come può un giudice sostenere che per anni la norma che consentiva tale uccisione esisteva nel sistema, improntato invece a una prospettiva personalistica, e nessuno se n’è accorto?



È chiaro che siamo di fronte a un caso in cui il potere giudiziario esonda dai propri limiti per usurpare il posto della politica. E per affermare una propria concezione della Costituzione, secondo la quale essa non stabilisce delle regole fondamentali, ma costituisce un mero simulacro il cui contenuto viene invece determinato dal giudice. Quest’ultimo, come è noto, non gode di una legittimazione democratica e nel momento in cui cerca di andare al di là dei propri compiti, non applicando la legge, ma creandola, dando voce a una presunta coscienza sociale, tenta di esercitare una funzione rappresentativa che mal si attaglia alla sua indipendenza e terzietà.

Come spiegare altrimenti la nota con cui il Primo Presidente della Corte di cassazione ha accompagnato la sentenza dell’autunno 2007, che accoglieva l’istanza di Beppino Englaro?

In un sistema che funziona il giudice “parla” con le sentenze. Se la sentenza non era chiara, andava scritta meglio; ma se era chiara, quale era la funzione della nota, se non quella di cercare un consenso nell’opinione pubblica, alla stregua invece degli organi politici?

Di Eluana si è parlato tanto. Si è parlato del suo caso, forse dimenticandosi che, per prima cosa, si stava parlando di una vita. Una vita che pulsa, che scorre e a cui non viene data giustizia. L’abbiamo vista giovanissima in quelle foto: bella, sorridente, spensierata. Ora la ragazza ritratta in quelle immagini è una donna. Una donna che ha sofferto nel corpo, ma che è stata amorevolmente curata, protetta, nutrita e idratata per 17 anni.

Il pensiero non può non andare a quella stanza di Lecco dove Eluana oggi vive, dove Eluana combatte, dove Eluana spera, non sapendo quale destino la attende. Nella casa di cura “Beato Luigi Talamoni”, da quattordici anni sulla giovane vegliano le suore Misericordine che la ricoprono di cure e di affetto e chiedono di poterla tenere con loro, di continuare ad amarla e accudirla.

Ma la loro e la nostra speranza stata strappata per atroce sentenza, invocando l’eutanasia, senza mai nominarla. Perché di eutanasia si tratta, di dolce morte, appunto.

Ma la fine di Eluana non avrà nulla a che vedere con la dolce morte. Perché Eluana Englaro non è attaccata a nessuna macchina, ma alimentata e idratata attraverso un sondino. È una vita – una giovane vita – semplicemente incapace di nutrirsi da sola, come un neonato o come qualsiasi persona inferma. E questa àncora, questo solido contatto che la tiene legata alla vita le verrà strappato senza pietà e con dolore, affermando che con questo gesto atroce si è adempiuta la volontà di Eluana, si è fatto un atto di pietà.

Ma quale pietà ci può essere se si nega l’esistere? In nome di quale giustizia si può disporre della vita di una persona, decidendone la sorte, per giunta ricorrendo alle parole leggere, pronunciate di sfuggita, nell’ingenuità della giovinezza, quando, nel pieno delle forze, capita di parlare di un dolore che non si conosce e che ci si augura di non dover provare su di sé?

Ciò che è innegabile è che nessuna malattia, nemmeno la più grave, può privare un uomo o una donna della dignità che le è propria, né sospendere i diritti fondamentali o erodere il diritto alla vita. E la perdita di questa nobile, antica, sacrosanta consapevolezza, di fronte a un tribunale che si sostituisce alle leggi del nostro Paese, ancor prima di suscitare critiche o sdegno suscita un profondo e commosso dolore.

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