Inaugurando l’anno accademico all’Università Cattolica di Milano, il ministro Giulio Tremonti è tornato su un tema di “filosofia economica” che gli è assai caro. Era già stato l’oggetto del suo libro, andato a ruba prima dell’estate, e da qualche settimana è diventato il suo cavallo di battaglia. La crisi della finanza è la crisi del mercatismo, è la crisi del capitalismo avvitato su se stesso, di un sistema finanziario che si credeva autofondato e autolegittimato, fino al punto di diventare una vera e propria ideologia. Nel discorso il ministro si è riferito ad un testo del 1986 dell’allora cardinale Ratzinger, che aveva “profetizzato” il collasso delle leggi del mercato e la sua stessa (del mercato) implosione. Citazione sorprendente e acuta, perché se c’è un’ancora di salvataggio cui aggrapparsi è il pensiero, è la tradizione, è la sapienza millenaria della Chiesa, in questi anni interpretata e espressa in modo sublime dal cardinale divenuto Papa. Inoltre è interessante rilevare il curioso rimando agli anni ’80. Sono gli anni in cui il “finanziarismo” diventa sistema culturale. Tutti imparano a conoscere l’indirizzo di Wall Street –in Italia più modestamente la “Milano da bere”: qui si creano e distruggono le fortune, qui si impara il gioco più duro del mondo, qui il denaro si separa dal lavoro, dalla produzione di beni, per autoriprodursi: ogni mattina, il suono della campana alla borsa di New York mette in funzione l’inesauribile cornucopia, espone alla adorazione degli uomini la pietra filosofale che rende ricchi, soprattutto alcuni. (Domenica scorsa, parlando all’Assemblea nazionale della Compagnia delle Opere Giorgio Vittadini ha parlato dei finanzieri “alchimisti”).

Che quel nuovo mirabolante mondo nascondesse qualcosa di malato lo indovinavano brillanti scrittori come Tom Wolfe (rileggere il grande Falò delle vanità) e  i cosiddetti “minimalisti” (Leavitt, McInerney, Ellis) e idolatrati registi come Oliver Stone (nessuno può dimenticare il Gordon Gekko interpretato da Michael Douglas). L’immaginazione percepiva il vizio, ma pur denunciandolo o mettendolo alla berlina di fatto contribuiva a trasformarlo in virtù. Un altro film, molto più tardo, A un chilometro da Wall Street, esprime bene l’insieme di smarrimento e tentazione che hanno segnato una generazione di uomini occidentali. Un sistema di valori, una epica cantata da film e libri, e anche un sistema educativo: le migliori università e i migliori tirocinii formativi dovevano sfornare i nuovi re. Giovani capaci di spremersi per giorni e notti (“i mercati non dormono mai”), ossessivamente programmati per “uccidere”, come i marines di Full Metal Jacket. Fino a trentacinque anni, missioni durissime, dedizione integrale, obbedienza pronta; poi te la godi, imbocchi la strada della leadership da esercitare sui nuovi giovani in arrivo… e soldi, sempre e tanti. Non è stato questo il sogno di migliaia e migliaia di laureandi in economia delle università di ogni parte dell’Occidente?

Ma c’è un altro elemento che suscita interesse nella citazione ratzingeriana fatta dal ministro. Ed è la denuncia di ciò che (da profani beninteso) si potrebbe definire “principio di separazione”. La finanza si separa dall’economia, e pretendendo di autofondarsi si perde. Così come si perde l’istruzione, separandosi dall’educazione; o la legge, privata del suo fondamento che è la giustizia; la politica se si distacca dal criterio del bene comune. E via di questo passo, nella sfera pubblica e in quella privata (amore e sesso, paternità e autorità, etc.). Il tema dei prossimi anni sarà come tenere unito ciò che si è voluto separare.