Quando si tratta la realtà in modo parziale, prima o poi la realtà si ribella. Si è pensato che la finanza potesse generare valore e ricchezza prescindendo da un loro corrispettivo reale legato al valore d’uso di beni e servizi che solo può generare un loro valore di scambio non drogato. Si è guardato all’azienda solo in termini statici di profitto trimestrale, senza considerare la sua stabilità e il suo sviluppo nel tempo. Si è ritenuto che i finanzieri potessero rispondere magicamente al pur giusto desiderio di migliorare le condizioni di vita di larghi strati della popolazione superando il limite imposto dalla realtà e dalla effettiva capacità personale e familiare di generare reddito e far fronte ai debiti.
Non si tratta innanzitutto e solo di un problema morale, ma di concezione.
Le persone che hanno pensato i meccanismi complessi della nuova finanza, in parte responsabili della crisi, hanno studiato nelle migliori università del mondo, hanno mostrato di avere grandi competenze tecniche, ma non la capacità di guardare la realtà che hanno sotto mano in modo complessivo, per ciò che è, per lo scopo e i limiti che ha. In generale, si è concepito uno sviluppo che prescindesse dall’equilibrio tra tutte le dimensioni della vita umana, familiare, sociale, ambientale, religiosa, per poi scoprire che la conseguenza più grave della crisi finanziaria è una perdita generalizzata di fiducia, anche alla radice del credito economico, fondamentale non solo per la vita personale, ma anche per l’economia reale, per la possibilità di investire, consumare, perfino fare transazioni economiche e finanziarie e per i rapporti fra gli Stati.
Ad una concezione di impresa di breve respiro si è senz’altro aggiunto un’idea di sé e di lavoro dal fiato corto: solo nel 2007 – anno già segnato dalla crisi – i banchieri di Lehman Brothers, Merril Lynch e Morgan Stanley si sono attribuiti da soli oltre 25 miliardi di bonus. E’ questo un fatto che si commenta da solo e che dice però di un dato ormai molto diffuso: al centro dell’azione economica non c’è più un soggetto umano che vive in modo equilibrato tutte le dimensioni della sua esperienza e non vive più il lavoro come espressione del proprio desiderio di trasformare la realtà, ma ritiene prioritario per la sua soddisfazione l’arricchirsi a qualunque condizione.
Non sappiamo cosa succederà, ma un fatto è certo: va riconsiderata la centralità dell’economia reale e dell’economia locale, quella che è più alla nostra portata, su cui ha più incidenza la nostra posizione vera sulla realtà secondo due dimensioni.
Innanzitutto occorre recuperare il valore del lavoro e dell’impresa così come viene dalla nostra tradizione. A causa delle loro piccole e piccolissime dimensioni, le nostre imprese, sono più facilmente il modo in cui la persona mette in gioco le sue idee, la sua voglia e capacità di rischiare, di intraprendere: chi guida l’azienda si identifica con essa e le sue capacità ne rappresentano il principale vantaggio competitivo. L’impresa, così concepita, rappresenta una ricchezza senza pari per la nostra economia, perché in essa si concretizzano i valori dell’imprenditorialità e dello spirito di intrapresa, ovvero quella cultura d’impresa che significa capacità di assunzione del rischio, non disgiunta però dalla responsabilità verso chi partecipa all’impresa stessa.
Da questo punto di vista bisogna avere coscienza che in certe esperienze, vissute partendo da una posizione ideale, c’è un’originalità che va tutelata, costruita, difesa, incrementata e non appiattita. Una determinata impostazione, che valorizza l’umano e che non è contro l’interesse dell’azienda, se parte dall’esperienza, non ha motivo di essere sottomessa ad altri criteri. Secondariamente, fermo restando la necessità di soluzioni “globali”, il “fondamento” di nuove istituzioni mosse da criteri ideali e la loro efficacia saranno, nella vita quotidiana, determinati dalla vitalità dei sistemi locali. Una crescente letteratura mette in evidenza l’importanza delle istituzioni, in particolare informali (valori, cultura) e dei legami di fiducia a livello locale, che permettono di individuare delle vie di uscita dalla crisi quando i meccanismi classici (ad esempio nel settore finanziario) sono “grippati”.
Tali reti locali di fiducia e di reputazione sono importanti sia come “rete di sostegno” (aspetto difensivo), sia come fattori di innovazione e dinamica (aspetto di apertura e crescita). L’Italia è un Paese dove l’interfaccia con la globalizzazione avviene attraverso modelli locali (mentre per gli altri Paesi avviene attraverso le grandi imprese). La provincia di Timisoara in Romania è chiamata non a caso, l’ottava provincia del Veneto. Per questo è essenziale oggi, per il nostro Paese, continuare a basare il suo modello di sviluppo sul principio di sussidiarietà (il principio che mette al centro la persona e le iniziative “dal basso”, non solo funzionalmente, ma come valore in sé): altri modelli, come quello liberista anglosassone o quello nazionalista tecnocrate francese, che pure hanno indiscutibili meriti, non appartengono alla nostra realtà e, sono convinto, non rappresenterebbero un vantaggio.
E non si tratta di gusto o orgoglio per l’”italianità”. Anche se le statistiche fanno fatica a coglierne gli elementi, alcune ricerche mostrano come il successo di una parte dell’imprenditoria italiana all’estero (alla base della risalita delle esportazioni negli anni 2001-2007) consista nella proposizione su scala internazionale del localismo italiano.
Detto questo, occorre ammettere che non tutte le imprese italiane hanno intrapreso il rinnovamento nella tradizione. La crisi ha solo reso più urgente e drammatica la necessità di un cambiamento certificato dal rallentamento del PIL già precedente la crisi, nonostante l’aumento delle esportazioni. I valori di una parte degli imprenditori si sono da un pezzo annacquati a causa del crollo di tensione ideale e imprenditoriale: un imborghesimento collettivo per cui molti, invece di trovare strade nuove per essere competitivi, hanno invocato sovvenzioni, aiuti, difese dal mercato.
Proprio per una caduta ideale, molti hanno preferito vendere di fronte alle difficoltà per poter vivere di rendite finanziarie, riducono l’umano alla “risorsa umana”, sono diventati intrinsecamente incapaci di valorizzare le persone e per questo non investono in formazione, non rinnovano strategie e metodi in base a ciò che si muove intorno, fanno fatica ad innovare, ad internazionalizzare e a creare legami di collaborazione e integrazione con altre imprese, istituzioni e realtà sociali. Il cambiamento richiesto oggi rappresenta una drammatica, ma affascinante possibilità di reinventarsi. Se non coglieremo questa occasione riscoprendo i valori tradizionali della nostra impresa e correggendone i difetti, il declino sarà inevitabile.