Ricordava un saggio pubblicato dalla rivista Oasis che nell’atlante mondiale del terrorismo l’India ha conquistato il suo posto di rilievo ormai da parecchio tempo. Sono passati sessanta anni dall’uccisione del padre della patria, il Mahtama Gandhi, per mano di estremisti hindu, 24 da quella di Indira Gandhi ad opera dei sikh e 17 da quella di Rajiv Gandhi causata dai guerriglieri tamil. Nella più grande democrazia del mondo c’è una certa propensione ad ammazzarne i leader. Ma non si tratta solo di omicidi eccellenti, perché in questo non ci sarebbero differenze abissali dagli Stati Uniti degli anni Sessanta o dall’Italia e Germania degli anni di piombo. Le stragi accompagnano l’India moderna, che pure ottenne l’indipendenza grazie alla spettacolare campagna non violenta del Mahatma contro la dominazione inglese. Ma come è accaduto troppo frequentemente (si pensi alla Palestina o a Cipro) i britannici lasciarono dietro le spalle le braci ardenti di incendi che sarebbero ben presto divampati. E così la separazione del Pakistan, concepito come la patria dei musulmani, fu accompagnata da una terrificante violenza i cui echi non si sono mai spenti. E le periodiche insurrezioni delle caste, i conflitti etnico-nazionalisti (nel Punjab dei sikh, nel Tamil Nadu, nell’Assam), la guerra a bassa ma continua intensità con il Pakistan per il Kashmir (ne ha scritto recentemente Arundhati Roy, autrice del magnifico romanzo Il dio delle piccole cose, dedicato al dramma degli intoccabili), gli scontri politici sollevati dalle svariate formazioni comuniste. Il casus belli della recente ondata delle persecuzioni anticristiane dell’Orissa è stato l’assassinio di un leader hindu rivendicato da un gruppo maoista -meccanismi che ricordano i pogrom antiebraici nella Russia di fine Ottocento.
Massacri e attentati più familiari alla nostra immagine di terrorismo (autobombe, agguati, esplosioni nei mercati e nelle stazioni, assalti) sono relativamente più recenti. Dal 1992 fino all’altro ieri vengono enumerati oltre milleduecento civili morti in attentati di ogni genere.
I fatti di Mumbai allungano la catena, ma insieme mostrano qualcosa di diverso (o almeno lo mostrano in modo clamoroso). C’è la mano o l’idea di Al Qaeda, c’è la caccia ad americani e britannici, c’è un gruppo che dichiara il legame con il jihad, la guerra “santa” del musulmano, la cui interpretazione non è affatto univoca. Emerge cioè la natura del terrorismo globalizzato, quello che non ha una radice locale, etnica o nazionalistica, ma che di queste radici può nutrirsi; quello che non ha una origine politica, ma su di essa può prosperare: è Alien, il mostro che il cinema ha immaginato vicino a noi, dentro di noi, e che la realtà ci ha fatto conoscere “grazie” all’11 settembre. Non è circoscrivibile a una ragione ideologica o a una zona geografica, perché supera ogni tipo di barriera. Pensateci. Dall’Afghanistan in Algeria, da Israele al Libano, Somalia, Irak e Indonesia, e poi Madrid, Londra, Mosca. Un serpente nero che corre veloce sulla mappa del mondo. Lo squadrone dei terroristi veniva dal Pakistan, giurano le autorità indiane. E’ lì uno dei buchi neri del pianeta, una delle tane di Alien (come aveva presentito Bernard Henri Levy nello sconvolgente libro inchiesta Chi ha ucciso Daniel Pearl?).