La corsa alla Casa Bianca volge ormai verso il termine e domani calerà il sipario su uno tra i duelli più combattuti della storia delle elezioni americane.
La sfida dei due protagonisti, i candidati Barack Obama e John McCain, è stata all’altezza delle aspettative: tanti i temi affrontati, altrettante le occasioni di confronto e, talvolta, anche di scontro in cui gli aspiranti presidenti si sono misurati affidando ai loro elettori, come al resto del mondo, un’occasione in più per fermarsi a riflettere sulle nuove strategie da adottare in un contesto internazionale che cambia con una rapidità impressionante.
Il mondo ha assistito in questi lunghi mesi di campagna elettorale al faccia a faccia tra due candidati che hanno mostrato le diverse prospettive politiche, sociali e culturali di un’America sempre più frammentata e sempre meno coesa. Provenienti da due universi differenti hanno saputo rispecchiare le nuove mete verso cui tende il “sogno americano”.
Barack Hussein Obama Jr, classe 1941 nato da padre kenyano e madre del Kansas, ottenuta l’investitura ufficiale durante la convention a Denver il 25 agosto scorso, ha fatto dell’ormai celebre motto “Yes we can” l’inno del popolo democratico d’America ed è stato capace di battere a sorpresa l’ex first lady e senatrice dello stato di New York Hillary Clinton.
Il senatore dell’Arizona, invece, che era già stato candidato alla Presidenza nelle elezioni del 2000 e poi sconfitto alle primarie repubblicane da George W. Bush, dopo aver liquidato senza grosse difficoltà il collega Mitt Romney, ha cercato a più riprese di agganciare il suo avversario.
Senza ombra di dubbio è stata la campagna elettorale delle novità. Considerata agli esordi come la più sorprendente in quanto ai cambiamenti in atto e alle scelte intraprese dai partiti stessi – si pensi soltanto alla designazione di una donna e di un uomo di colore alla candidatura per la presidenza – sul finire è andata via via arenandosi fino a calcolare, almeno stando ai sondaggi, un distacco che fa disperare in una possibile rimonta da parte di McCain.
Senza contare che era dal 1928 che non si assisteva a un’elezione in cui nessun candidato godesse del vantaggio dell’incumbency, cioè del fatto di essere presidente o vicepresidente uscente. Anche questo aspetto ha reso avvincente la sfida molto perché in entrambi i partiti si è scelto un candidato in un broad field, cioè in un campo aperto, senza che nessuno partisse da una posizione di vantaggio data dalla carica ricoperta al vertice del Paese.
Certamente, Obama è l’uomo nuovo di queste elezioni. Ha combattuto la sua battaglia sempre sul filo dell’ambivalenza cercando di fare da collante in una società americana che si presenta oggi sotto l’aspetto della globalizzazione e, al contempo, della molteplicità.
La strategia del candidato democratico ha fatto fruttare molti voti perché facendo leva sul cambiamento della cultura politica – in particolare in quella della sinistra americana, sempre più slegata da ogni retroterra culturale tradizionale – è riuscito a raccogliere più consenso possibile.
Dall’altra parte, invece, “Mac is back”, come dicono i sostenitori del senatore dell’Arizona (sopravvissuto nel 1969 quando, in missione ad Hanoi in Vietnam, il suo aereo fu abbattuto e lui, ferito, fu catturato dai norvietnamiti rimanendo prigioniero di guerra fino al 1973) e volto noto all’interno del panorama politico americano.
Eppure, il candidato più vecchio della storia degli Usa ha saputo mettere a disposizione dell’elettorato americano idee nuove e chiari programmi in particolare per quanto riguarda le possibilità di affrontare la crisi economica e finanziaria che sta colpendo l’America e il resto del mondo.
Economia politica estera e sicurezza nazionale, ma anche contenuti scottanti – come la lotta al terrorismo e la situazione irachena – ed eticamente sensibili – come la ricerca scientifica e la discriminazione razziale – i temi al centro della corsa alla Stanza Ovale affrontata dai due candidati.
Le argomentazioni proposte hanno visto poi due differenti modi di interpretare la politica: pragmatismo da un lato, idealismo dall’altra. E altrettanti modi di colpire il pubblico: townhall meeting, le assemblee popolari nate nel 1700 in New England, dove McCain attraverso il contatto diretto con gli elettori, nel botta e risposta esprime argomentazioni più lineari e, generalmente, più efficaci e i dibattiti e le interviste, in cui Obama ha saputo sfoderare la sua capacità di eloquio e di dissertazione.
A differenza delle precedenti, anche le donne in questa campagna elettorale hanno avuto un ruolo centrale rubando in più occasioni la scena ai due contendenti alla Casa Bianca. Dapprima Hillary Clinton, la grande sconfitta di queste elezioni, che ha sofferto l’onda d’urto del desiderio di novità e cambiamento che Obama ha saputo incarnare e, nella maggior parte dei casi, assecondare perfettamente di fronte alle vicende avverse della campagna elettorale. Ha incantato i media e la Clinton, benché amata e molto popolare, alla fine ha ceduto e ha dovuto elegantemente passare lo scettro al candidato afro-americano.
Se Obama si è affidato all’esperto Joe Biden come vicepresidente in caso di vittoria, McCain si affiderà all’intraprendenza della governatrice dell’Alaska Sara Palin, l’altro volto femminile di queste elezioni.
Quanto alla capacità di stabilire rapporti “transatlantici”, dei due concorrenti, McCain sembra quello più in grado di stabilire un rapporto con i fautori dell’atlantismo, ma, in questo senso, l’Europa, indipendentemente dalla vittoria di Obama o del senatore dell’Arizona, deve continuare, nell’impegno a tessere rapporti profondi con gli Stati Uniti. Nell’attuale contesto risulta un dovere e una priorità.