L’Ohio ha cambiato colore alle 21,18. In quel momento lo Stato che nel 2004 riconsegnò le chiavi della Casa Bianca a George W. Bush ha frantumato le speranze di vittoria di John McCain. La strada si era fatta in salita già mezz’ora prima con la conferma che la Pennsylvania aveva scelto Barack Obama. E il sentiero del senatore dell’Arizona, già stretto in verità alla vigilia, per approdare al 1600 di Pennsylvania Avenue era diventato ancora più irto. Quasi proibitivo.

Ha vinto quindi Barack Obama. Il 20 gennaio diventerà il 44esimo presidente americano, il 16esimo democratico. Ma quel che conta è che è il primo afroamericano a entrare da “padrone” nello Studio Ovale. Se l’America con queste elezioni voleva chiudere una volta per tutte la macchia, la colpa, della schiavitù e della segregazione, ci è riuscita.

Ora tocca a Obama mantenere la promessa del cambiamento e di riunire un Paese lacerato. Dovrà trasformare Washington da luogo della corruzione e dell’impopolarità all’ennesima potenza, nel salotto accogliente per tutti gli americani, poveri, minoranze e middle class.

Sfida non agevole: è più facile corteggiare le fasce deboli facendo il tribuno in giro per gli Stati Uniti, che dalla Casa Bianca. Da domani la retorica servirà poco.
Molto dipenderà dal Congresso, da quale maggioranza Barack avrà a disposizione. Camera e Senato sono in mano ai democratici. Ma la sinistra Usa ha mancato l’obiettivo più ambizioso (e difficile): raggiungere quota 60 senatori (serviva un balzo di +9) per bloccare l’ostruzionismo in aula dei repubblicani.
Per forza qualche concessione alla minoranza la dovrà fare il presidente Obama.

L’Amministrazione che il 20 gennaio entrerà in carica ha davanti a sé sfide immani. Non si illudano gli europei che il neopresidente cambierà la politica estera americana con la bacchetta magica. Muteranno forse i toni, non la sostanza. E non perché manchi la volontà. La complessità della macchina militare e diplomatica, l’adesione a trattati, intese e patti con i Paesi stranieri e le organizzazioni internazionali, non consente colpi di testa. Un presidente non può invertire rotta bruscamente. O non lo può fare un presidente Usa chiamato in primis e della Costituzione, a difendere la nazione e a tutelarne gli interessi.
E poi l’urgenza dell’America oggi non sono le truppe Usa in Iraq. Gli exit poll dicono che nella mente di 6 statunitensi su dieci nei seggi c’era l’economia, non la guerra al terrorismo.

E’ quindi l’ambiziosa agenda riformista sul fronte interno a invitare Obama all’azione. L’America ha scelto il cambiamento e ha chiesto maggior efficienza a Washington; più capacità di risolvere i problemi della gente. Obama dovrà affrontare la questione dell’assistenza sanitaria; della politica energetica; dei diritti civili e dei posti di lavoro.
Sarà giudicato su queste basi. E non servirà granché l’oratoria.