Alla fine, con mia grandissima sorpresa un caro amico newyorchese, ebreo e repubblicano da sempre (famiglia inclusa), ha votato Barack. Lo ha convinto il figlio adolescente con una martellante campagna durata un anno, che faceva leva soprattutto sulla debolezza del Grand Ol’ Party e sull’atroce delusione subita dal secondo mandato di Bush, al quale non sono bastati i cambi di governo e di portavoce: ciò che nel primo mandato appariva come determinazione, convinzione, capacità di reazione, solidità, nel secondo si rivelava più che altro come un effetto meccanico dovuto all’11 settembre e all’immensità tragica di quella giornata.

Dentro l’America profonda c’è una forza incalcolabile e quella era sgorgata “automaticamente” dalle sue viscere. La politica, la Casa Bianca, non sapendo elaborarla e governarla davvero, ha potuto solo indirizzarla da qualche parte. Con i risultati che sappiamo, dalla guerra contro l’Iraq (un finissimo ed espertissimo cardinale profetizzò in privato: «Gli americani prima o poi dovranno andarsene e così saranno riusciti a regalare all’Iran le chiavi di Baghdad») a Guantanamo, i cui prigionieri arancioni continuano a scavare dubbi nell’anima americana, molto più di quanto non si pensi.

Tra l’altro, se è vero che nell’agenda di Obama i foreign affairs non sono in cima all’agenda – lo dicono tutti gli espertissimi commentatori che dall’altra notte ci hanno alluvionato di parole televisive, qui modestamente ne siamo molto meno convinti – ma almeno sull’Afghanistan dovrà dire e fare qualcosa molto presto: la guerra diede subito un colpo tremendo ai talebani, ma nemmeno quella storia venne sistemata e oggi dalla stessa amministrazione americana (e non solo, purtroppo) affiora l’incredibile idea di negoziare con gli esponenti di un regime ancora più cupo di quello di Pol Pot.

Quella forza aveva espresso e sospinto anche un pensiero nuovo, o per lo meno innovativo, per il quale era stato coniato il nomignolo neo-con o anche teo-con. Fiducia nella democrazia e nella sua globalizzazione, esaltazione della religione nel discorso pubblico, riaffermazione della positività americana. Soprattutto nel passaggio tra primo e secondo mandato di Bush, un passaggio molto critico e vinto di poco, era stato raccontata al mondo questa nuova America, simboleggiata dal geniale stratega elettorale Karl Rove che aveva portato a votare “milioni di cristiani del Midwest”. Anche quello era un “cambiamento epocale”, basta con le culture del politicamente corretto, con il progressismo vuoto delle coste (est e ovest), si ricomincia seriamente a fare l’America.

Ma in poco tempo questo patrimonio, se mai c’è stato, è sfumato e dopo otto anni di governo i leggendari think tank repubblicani avranno parecchio da fare per iniettare idee nuove nel partito svuotato. È precisamente il vuoto involontariamente avvertito dal figlio adolescente dell’amico newyorchese: non credeva che la coppia McCain-Palin potesse riempirlo, il padre non ha saputo opporgli resistenza.

Ora c’è Obama e la cosa più interessante è uscita diretta dal cuore dell’ex rivale John McCain: «Ha incarnato da subito la speranza degli americani».

Speranza è una parola molto abusata nel linguaggio politico della campagna elettorale americana, da tutti i presidenti (per Clinton essere nato in un paesino di nome Hope era un vantaggio) e certo non è l’uso di questa parola a fare la differenza tra vittoria e sconfitta.

Ma McCain ha capito che il senatore afroamericano (e lo è in modo letterale e diretto) nato a Honolulu, allevato per qualche anno in Indonesia e laureato a Harvard, ha fatto di più: la speranza l’ha «incarnata da subito». Si è rivolto a quella forza incalcolabile e l’ha convinta rendendo visibile un ideale grandioso e semplice, un motivo per cui agire, una meta da raggiungere: l’America che sappiamo, che appartiene al nostro dna, che è stata costruita dal desiderio di non rinunciare al desiderio.

In fondo, in un anno e mezzo di campagna elettorale, primarie incluse, Obama non ha fatto altro che chiedere all’America di guardarsi allo specchio e rispondere alla domanda «che cosa vedi?». Vediamo l’America, gli hanno risposto, una speranza incarnata da subito.