Due notizie provenienti dall’Inghilterra danno da pensare. La prima è che la municipalità di Oxford, la cittadella accademica più celebre del mondo, ha deciso di non chiamare più il Natale col suo nome, ma con quello più neutro di Festività Invernale della Luce. Con questa denominazione un po’ ridicola si vorrebbe evitare di urtare la suscettibilità di tutti quelli per cui andare in vacanza perché si festeggia la nascita di Gesù Cristo risulta fastidioso. Ed è singolare che coloro che più si sono lamentati di questa decisione siano i capi delle comunità ebraica e musulmana di Oxford; a loro risulta evidente che cancellare il Natale significa eliminare un pezzo dell’identità britannica, da loro stessi vissuta. Ma passiamo alla seconda notizia.

Sui bus e nelle metropolitane di Londra è comparsa nelle scorse settimane la seguente scritta pubblicitaria: «Probabilmente Dio non esiste. Dunque smettete di preoccuparvi e godetevi la vita».

L’iniziativa è partita da un blog del giornale progressista Guardian e, dicono gli organizzatori, ha avuto un successo clamoroso: si dovevano raccogliere cinquemila sterline per una piccola campagna pubblicitaria e ne sono arrivate oltre centodiciassettemila. Scopo del messaggio è quello di «rassicurare» chi si sente minacciato dal ritorno del fervore religioso. È chiaro, infatti, cosa i sostenitori dell’iniziativa (tra loro figura Richard Dawkins, diventato celebre per un libro sulle «ragioni per non credere») intendano per Dio: un nemico della vita. Coi suoi precetti e divieti, con la minaccia della punizione eterna, con le sue regole soffocanti questo simulacro di Dio appare evidentemente un ostacolo per la realizzazione dell’uomo. E quindi la constatazione che «probabilmente» non esiste fa tirare il fiato.

Ma siamo così sicuri che, senza Dio, noi possiamo «goderci la vita»? Come dovremmo fare?

Occorrono un sacco di condizioni di non facile raggiungimento (e questo lo slogan ateistico tende a nasconderlo): bisogna avere la salute e un lavoro soddisfacente, disporre di un minimo di agiatezza economica, essere capaci di instaurare rapporti interpersonali ed affettivi appaganti. E poi è necessario che la situazione intorno a sé consenta di godersela, la vita. Se sei seduto sul bus (magari quello con la scritta ateistica sulla fiancata) e ti schiacciano un piede, tutto il tuo godimento se ne va.

E non basta. Siamo sicuri che uno possa tranquillamente godersi la vita quando legge quello che legge sui giornali? Le migliaia che fuggono dai loro villaggi in Congo o quelli che perdono il posto di lavoro perché la banca fallisce; i cristiani ammazzati in India e la bambina lapidata in Somalia.

Ci vorrebbe un po’ di giustizia perché questa vita sia davvero godibile. Ma anche guardando più da vicino: come farei a «non preoccuparmi» se una persona che mi è cara soffre, è scontenta, magari un pochino depressa?

Insomma «godersi la vita» è un affare complicato. Ma, soprattutto, cos’è questa vita che dovrei godermi? È la somma di salute, affetti, lavoro, soldi, circostanze più o meno favorevoli? È il susseguirsi di raggiungimenti parziali e sempre effimeri? Non c’è, invece, in ognuno l’urgenza di trovare qualcosa che dia consistenza e durata a tutti quei fattori? Non vive ognuno lo struggente bisogno di un «godimento» che non lasci fuori nulla e che sia permanente? Della felicità, insomma.

Questa esigenza non apre forse la prospettiva su un orizzonte infinito e misterioso, quello che gli uomini hanno sempre chiamato Dio? Limitare simile apertura non è un rimpicciolimento della persona, una sua riduzione a misure meschine, quelle facilmente gestibili da un potere prodigo di «godimenti»? L’uomo che è nato quel giorno di duemila anni ha detto che proprio per camminare verso la felicità ogni uomo è venuto al mondo e che la misura del suo desiderio è infinita. È per questo che gli amministratori di Oxford vogliono farci dimenticare il suo Natale?