Stucchevole, inutile, fuorviante, bolsa, polverosa, ambigua. Facile trovare aggettivi per qualificare la lite politica sorta intorno al fascismo e all’antifascismo, a quale sia il male assoluto e il male relativo, a Salò e alla Resistenza. Discussioni un tanto al chilo, buone per fare titoli sui giornali e immagini sui telegiornali. Per non parlare di “mi attaccano perché sono di destra” oppure “non collaboro con chi è indulgente con il fascismo”, frasi fatte che infarciscono le uggiose cronache di questi giorni. Quello che infastidisce non è tanto il merito della contesa, che in sé avrebbe anche elementi di interesse, come dimostra l’incessante lavoro degli storici e la pubblicazione di libri di grandissimo successo (Pansa innanzitutto): ma la sua fragorosa inutilità. Sappiamo bene che non ne verrà fuori alcunché di positivo per il bene comune, per la coscienza collettiva, per recuperare tratti di identità nazionale. Si tratterebbe di approfondire davvero, di riconoscere, di ammettere, di de-ideologizzare, di ri-umanizzare, di cercare; tutte attività che hanno ben poco a che fare con il battibecco odierno. Buono tutt’al più per la politica interna di partiti e di aree di partiti, alle alleanze e ai ricatti di Questo e di Quello ai danni di Tizio e Caio. E buono per il doping degli estremisti che imbrattano muri e bivaccano tra “centri alternativi” e case occupate, licei-bene e facoltà “sapienziali”.

Invece. Per riaffrontare la storia con tutti i suoi perché e i suoi dolori occorrerebbe alzare lo sguardo, o anche affinarlo, indirizzarlo al profondo, al dentro delle cose e degli eventi. Come ha fatto una famiglia arabo cristiana di Gerusalemme, i Khoury. Nel 2004 il giovane Georges Khoury, studente di 20 anni, venne ucciso da quattro pallottole mente faceva jogging poco fuori dalla Città Vecchia. L’assassinio fu rivendicato dalle Brigate Al Aqsa, gruppo terroristico-kamikaze di Al Fatah e mai fu chiarita la motivazione. Forse volevano colpire un “simbolo”, un ragazzo al confine tra diversi mondi, iscritto all’università ebraica, figlio di un avvocato difensore dei palestinesi, nipote di un uomo impegnato nel dialogo e anch’egli morto in un attentato nel 1975, cristiano. Lo stesso Arafat chiese scusa per “l’incidente”, promettendo compensazioni e l’iscrizione di Georges all’albo dei “martiri”. La madre rispose: “Mio figlio non è un martire, è un angelo”. Qualche anno dopo, e cioè oggi, la storia dei Khoury è tornata a far parlare di sé. E’ stato pubblicato in lingua araba il libro di un celeberrimo scrittore israeliano, Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra; è il libro che il padre di Georges aveva appoggiato sulla tomba del figlio: in quel libro, che raccontava l’epopea della famiglia Oz nell’intreccio della creazione dello Stato d’Israele, riconosceva qualcosa di profondo, di autentico, di umano, e voleva che venisse letto da tutti perché utile a capire e a capirsi, ad affrontare la storia, che poi è storia di persone. La famiglia Khoury decise di finanziarne la traduzione e l’edizione in arabo, arrivata in porto in questi giorni. Non si sono fermati al dolore, non si sono abbandonati all’odio, non si sono rifugiati nelle trincee ideologiche. Invece, un gesto umano, un atto di verità, il coraggio di guardare dentro.

Ecco, quando qui esplode la contesa su repubblichini e partigiani, sull’8 settembre e sulle leggi razziali, mi piace pensare alla famiglia Khoury e alle tante persone che hanno saputo cambiare la Storia, o almeno rendersi utili, usando il cuore.