11/9, quell’anniversario che unisce Obama e McCain

Marco Bardazzi, corrispondente ANSA dagli Usa, racconta il clima in cui l'America celebra l'anniversario del giorno in cui è stata cambiata per sempre. I figli di coloro che morirono in quelle drammatiche circostanze, la situazione degli Stati Uniti oggi, l'emergere di nuove potenze

Un devastante lutto in famiglia, vissuto su scala nazionale, diventato più sopportabile con il tempo, ma non meno doloroso. L’11 settembre è ormai un po’ questo per l’America, che ha imparato a convivere con la perdita, raramente versa più lacrime, ma conserva memorie non cancellabili e sa di essere stata cambiata per sempre.

Il ricordo può essere nascosto nella dimenticanza del quotidiano, ma è sempre pronto a riemergere in gesti banali. Basta un niente: il tempo di rimuovere le scarpe per passare il metal detector all’aeroporto, e d’un tratto uno ricorda che fino a sette anni fa la vista in un terminal di qualcuno a passeggio scalzo, con mocassini e cintura in mano, sarebbe sembrata bizzarra. Oggi è la norma in ogni scalo americano.

Nei primi anniversari il dolore era palpabile, quasi insopportabile. L’11 settembre 2002, con il vento che tirava su la polvere dal cratere di Ground Zero, in un silenzio sconvolgente erano stati letti per la prima volta tutti i quasi 2.800 nomi delle vittime. L’11 settembre di un anno dopo era stato un anniversario da groppo in gola, forse il più intenso. La stessa lettura era stata affidata ai bambini, che pronunciavano nomi di padri, madri, zii, nonni, fratelli e sorelle disintegrati nelle Torri Gemelle. “Ti voglio bene papà, mi manchi tantissimo”, aveva detto al microfono con voce rotta Christina, 12 anni, dopo aver pronunciato il nome del padre Richard Anthony Aceto. E come lei, centinaia di altri. Stavolta il sottofondo non era il silenzio come un anno prima, ma singhiozzi sommessi.

Ora Christina e gli altri “bambini di Ground Zero” sono una nuova generazione di adolescenti, quasi adulti. Agli anniversari si presentano con il volto dei ragazzi cresciuti in fretta. L’area dell’ex World Trade Center per molti di loro resta un cimitero di famiglia: di oltre 1.100 vittime non è mai stato trovato un brandello che permettesse un’identificazione, e circa 10.000 “parti umane” sono conservate in uno speciale deposito a New York, in attesa che in futuro la scienza trovi nuovi metodi di identificazione e dia loro un nome.

Come nei lutti familiari, con il passare del tempo le lacrime si sono fatte più rare in America, ma non per questo è sopraggiunta la dimenticanza. Dopo sette anni il paese ha semplicemente cominciato a metabolizzare un evento di cui solo ora si cominciano a vedere le conseguenze di lungo termine. L’11/9 ha cambiato la cultura americana: pittura, poesia, letteratura, cinema, tutto ne è rimasto contaminato e lo resterà a lungo. Ha segnato la psicologia, gli umori e le carriere universitarie di un’intera generazione. Ha influenzato l’architettura – i grattacieli tengono conto di nuove esigenze, per esempio come resistere all’impatto di un aereo di linea. E ovviamente ha stravolto l’intero sistema della sicurezza di un paese che, prima del 2001, non era mai stato colpito in casa dai tempi in cui gli inglesi avevano raso al suolo Washington nella guerra del 1812.

È cambiata profondamente, e non poteva essere altrimenti, anche la politica. L’11 settembre 2008 segna la seconda volta che un anniversario della strage cade nel pieno della corsa alla Casa Bianca. Oggi i due candidati, John McCain e Barack Obama, saranno presenti nel luogo-simbolo di quel giorno, Ground Zero, dove anche Papa Benedetto XVI è voluto sostare in silenziosa preghiera nel suo viaggio americano dell’aprile scorso. “L’11 settembre ci unì tutti, non come repubblicani o democratici, ma come americani”, hanno detto McCain e Obama in una dichiarazione congiunta che segna una tregua almeno di un giorno in una campagna che si fa sempre più aspra.

Per i due aspiranti presidenti è una presenza che porta con sé opportunità e rischi elettorali.

McCain può presentarsi come il candidato del partito che in questi anni, con George W.Bush alla Casa Bianca, ha ottenuto l’innegabile risultato di aver impedito che in sette anni Al Qaida o i suoi emuli colpissero di nuovo l’America. Ma è anche il portabandiera di un’avventura militare, quella in Iraq, sulla cui necessità come tappa della “guerra al terrorismo” post-11/9 gli americani hanno sempre più dubbi. Obama sulla stessa guerra è stato critico fin dall’inizio ed è un forte sostenitore della necessità di rafforzare l’impegno militare in Afghanistan, là dove è nato a metà degli anni Novanta il piano sfociato nel più grave atto di terrorismo nella storia. Ma il candidato dei democratici, a Ground Zero, deve anche difendersi dal sospetto di non avere l’esperienza necessaria a garantire agli americani la sicurezza, diventata uno dei temi principali su cui si basano le decisioni di voto.

L’enorme attenzione alla politica estera, soprattutto quella che riguarda i paesi musulmani, è un’ulteriore eredità dell’11/9 e le due campagne presidenziali che hanno seguito l’attacco terroristico sono state per questo assai diverse da quelle degli anni Novanta, che segnarono il trionfo di Bill Clinton, o dalla sfida del 2000 tra Bush e Al Gore. All’epoca un’America rimasta unica superpotenza planetaria si interrogava su come gestire al meglio il proprio potere, mentre si lanciava nel boom dello sviluppo tecnologico alimentato da Internet. Il settimo anniversario dell’11/9 arriva invece in uno scenario che Fareed Zakaria, direttore di Newsweek International, ha sintetizzato in un suo recente libro di successo come ‘Il mondo post-americano, segnato dall’emergere di nuove potenze come Cina, India o Brasile, dalle sfide della globalizzazione, dalle minacce del terrorismo islamico e dal riemergere di un forte nazionalismo, primo tra tutti quello russo.

Tra i commentatori, l’anniversario quest’anno ha dato vita alle riflessioni più disparate. Si va da coloro che sostengono sia l’ora di riconoscere che l’ideologia di Al Qaida è una minaccia minore in termini geopolitici, da combattere con metodi di polizia internazionale, a chi, come ha fatto l’esperto di terrorismo Jeffrey Goldberg sul New York Times, afferma che il prossimo presidente deve preoccuparsi di una sola cosa, una volta alla Casa Bianca: impedire che i terroristi riescano a far esplodere un ordigno nucleare in America, moltiplicando per 10, 100 o 1000 il bilancio delle vittime dell’11/9. Oltre alla perdita di vite umane sarebbe, secondo Goldberg, una catastrofe economica per l’America, la fine della globalizzazione, e l’epilogo della cultura del rispetto dei diritti civili nel paese.

Ma queste, in fondo, sono considerazioni sugli scenari planetari che restano lontane dall’anniversario che oggi vivranno, ancora una volta, gli ex “bambini di Ground Zero” come Christina. Per loro sarà un altro giorno di visita all’insolito cimitero dove stanno costruendo un nuovo grattacielo, la Freedom Tower, in mezzo alla polvere in cui si è dissolto papà.

 

Marco Bardazzi è corrispondente dagli Usa per l’Agenzia Ansa

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