La settimana scorsa ci siamo interrogati su significato e caratteristiche della (abusata) parola “evento”. Alcuni articoli pubblicati dopo di allora suggeriscono di ritornarci. Dal punto di vista di quel particolare «evento» che è il cristianesimo. Benedetto XVI ha sottolineato fin dalle prime righe della sua enciclica Deus charitas est la natura di “avvenimento”, di “evento”, appunto, che qualifica la fede cristiana. Un evento che ha la forma di un incontro.

Il Papa è tornato sull’argomento nella catechesi di mercoledì 4 settembre, raccontando della conversione di san Paolo sulla via di Damasco. Ha detto: «San Paolo è stato trasformato non da un pensiero ma da un evento, dalla presenza irresistibile del Risorto». E ha aggiunto: «Questa svolta nella sua vita, questa trasformazione di tutto il suo essere non fu frutto di un processo psicologico, di una maturazione o evoluzione intellettuale e morale, ma venne dall’esterno: non fu frutto del suo pensiero, ma dell’incontro con Cristo Gesù».

Dunque il cristianesimo è anzitutto il fatto di un incontro eccezionale, che, pertanto, si colloca a livello dell’ontologia – cioè della descrizione di come stanno le cose – piuttosto che a quello dell’etica – cioè delle conseguenze comportamentali, morali. Lo ha osservato Ezio Mauro nel suo editoriale del 5 settembre. Anche se poi il direttore di Repubblica ha piegato questa fondamentale intuizione a interpretazioni politico ecclesiastiche gravemente limitanti (come ha messo ben in rilievo Costantino Esposito su ilsussidiario.net dell’8 settembre). Ma l’evento cristiano non accetta limitazioni. Si pone; e chiunque può incontrarlo. Come è capitato a Giampaolo Pansa andando al Meeting di Rimini. Del suo resoconto apparso su L’Espresso non importa qui tanto la sua simpatetica affermazione che i “maledetti ciellini” hanno battuto la sua sinistra che non riesce nemmeno più a fare una decente festa dell’Unità. Più interessante quando descrive il suo “incontro” con la realtà umana del Meeting: «questa gente non ti chiedeva da dove venivi, ma voleva soltanto comprendere dove stavi andando. Nessuno mi ha fatto l’analisi del mio sangue politico. Nessuno mi ha chiesto per chi avevo votato. Nessuno mi ha domandato se preferivo Berlusconi o Veltroni. Erano soltanto interessati a sapere perché avevo scritto quei libri. Era il mio percorso umano che volevano scrutare, con lo sguardo attento dell’amicizia: il mio viaggio alla ricerca della verità e di me stesso. E ogni volta mi sono sentito ascoltato e mai giudicato». Ecco, è stato un incontro. Di cui nessuno può calcolare o predefinire le conseguenze.

L’incontro è sempre con una persona viva, non solo con quello che pensa o dice. Nella grandiosa tradizione letteraria ebraica questa dinamica è ben presente e descritta. Lo ha ricordato Pietro Citati recensendo la pubblicazione delle Storie e leggende chassidiche. Più di dotte disquisizioni vale un esempio: «Rabbi Low disse: “Se io andai dal Maggid [uno dei principali maestri chassidici], non fu per ascoltare un insegnamento da lui, ma solo per vedere come si slaccia le scarpe di feltro e se le riallaccia». Tornano in mene i primi due che hanno incontrato Gesù qualche anno prima di Paolo: sono andati a casa sua quel pomeriggio e «lo guardavano parlare».