Sempre più spesso, chiunque organizzi una qualsiasi attività culturale non la chiama più incontro, conferenza, dibattito, presentazione, lettura. No, la chiama “evento”. La parola conferisce all’iniziativa una certa aura di eccezionalità, di unicità, di straordinarietà che sembra giovare al successo dell’impresa. Effettivamente “evento” fa venire alla mente qualcosa di fuori dall’ordinario, che si ricorderà per lungo tempo, che succede così raramente da non poter essere dimenticato. Ma chiediamoci: “succede” veramente qualcosa nei tanti “eventi” che si presentano come tali?

Guardiamo, per esempio, all’offerta di proposte culturali di questo inizio di settembre. La dodicesima edizione del Festival della letteratura di Mantova propone 217 occasioni di incontro. Quello di Sarzana, dedicato alla mente, 49. La rassegna musicale MiTo supera i duecento concerti. Ovviamente tutto questo – e il molto altro che c’è in giro – è anche segno di vitalità culturale ed esprime la volontà di assecondare le più svariate sensibilità ed esigenze dei fruitori. Niente da dire. Eppure rimane la sensazione di trovarsi di fronte ad un semplice supermercato della cultura, nel quale ciascuno può scegliersi il proprio prodotto e addirittura confezionarsi il kit personale, completo di conferenza, passeggiata ecologica e sosta gastronomica. Ma ritorna la domanda: succede, davvero, qualcosa?

Perché si possa parlare di “evento” occorre altro. Occorre anzitutto che la proposta sia veramente tale. Parrebbe ovvio parlando di cultura, di libri, di musica impegnata; eppure si ha il sospetto che la congerie di suggestioni non miri ad un reale coinvolgimento dell’interlocutore, ma si limiti a titillarne la curiosità. Si parla di navigazioni in mari culturali sconosciuti e ti viene in mente il disimpegnato surfing su internet. Si discetta di percorsi cognitivi e pensi alla passeggiata domenicale nel corso, senza meta e senza obiettivo. Insomma, sembra di trovarsi di fronte a un grande gioco di società piuttosto che all’invito a una leale, impegnativa ricerca. Un gioco dove vale tutto perché tutto è uguale: basta che comperi.

Perché ci sia “evento”, poi, occorre che la persona stessa cui la proposta è rivolta sia disponibile a coinvolgersi, a mettersi in discussione, a mobilitare le proprie risorse più intime; molto di più di quando va al supermercato e sceglie una marca di biscotti. Ma perché questo avvenga la persona deve avere un’ipotesi di lavoro, qualcosa di cui è certa – fossero anche solo delle esigenze –, da cui partire nel paragone con ciò che si incontra. Difficilmente questo paragone è possibile senza un’appartenenza, senza far parte di una compagnia che educa a verificare ogni proposta. L’individuo isolato, invece, è più facilmente riducibile ad acquirente disimpegnato.

Solo a queste condizioni la cultura non è un divertimento soltanto un po’ più sofisticato degli altri o una distrazione ammantata di intelligenza, ma torna ad essere la coscienza riflessa di un’esperienza che coinvolge al fondo l’intera persona e la apre ad ogni prospettiva. Così tutto può essere “evento”.

(Pigi Colognesi)