Quello di Lehman Brothers è considerato il più grande fallimento della storia. Di gran lunga più pesante dei crac di Enron e del gigante hi-tech Worldcom. In questo caso, dopo i salvataggi prima di Bear Stern attraverso Jp Morgan, e poi di Fannie Mae e Freddie Mac con l’intervento diretto del governo federale, la Casa Bianca non si è mossa. Il mercato così ha sancito la fine di un’impresa bancaria nata 158 anni fa. Di fatto si chiude anche l’epoca iniziata dopo la crisi del ’29, che portò alla netta separazione tra banche commerciali e di investimento. Si torna così a premiare gli intermediari che possiedono una rete di sportelli capaci di raccogliere capitali in proprio. E questo è un primo passo verso la necessità di riprendere un legame con la realtà, dunque con i bisogni e con le opportunità dell’economia reale.

Con oltre 600 miliardi di attivi e solo 30 di capitale proprio, Lehman non poteva stare in piedi per il semplice fatto che operava con una leva – quindi con soldi di altri – insostenibile dopo una crisi come quella dell’ultimo anno. Per fortuna gli effetti negativi sui mercati finanziari sono stati in parte contenuti dall’acquisto nelle stesse ore di Merrill Lynch da parte di Bank of America e, successivamente, dal salvagente lanciato dalla Fed al colosso assicurativo AIG, con un prestito di 85 miliardi di dollari in cambio dell’80% del capitale azionario.

Una prima domanda che molti si pongono è sul ruolo delle authority preposte al controllo: dov’erano? Sono ancora idonee? Non è un caso che Lester Thurow, uno dei massimi economisti americani, suggerisca di regolamentare di nuovo il mercato, per evitare che si ripeta la crisi nel giro di qualche anno.

Ma l’economista risponde anche a una seconda domanda altrettanto ricorrente: si può ancora avere una fiducia cieca nel libero mercato? A suo giudizio il governo degli Stati Uniti non ne ha avuta. Ha mostrato una buona dose di pragmatismo salvando alcune banche e, quindi, evitando per ora il tonfo del ’29 che ebbe luogo proprio perché l’allora presidente Hoover si rifiutò di intervenire con denaro pubblico a sostegno del sistema bancario.

Una terza domanda è infine opportuna: il mercato, in questo caso il listino di borsa, è un indicatore ancora credibile del valore di un’azienda? Due grandi banche, due protagonisti della storia americana e mondiale come Merrill Lynch e Lehman Brothers oggi non compaiono più nel listino di Wall Street. Basti pensare che un’azione di Lehman a gennaio valeva 60 dollari e venerdì scorso solo 3,5 dollari, in uno scenario tutto sommato immutato.

Non voglio discutere del valore del mercato ma di alcuni suoi limiti nella comprensione dei dati che conferiscono valore all’economia. Oltre all’opportuna rivisitazione della normativa di vigilanza e al funzionamento dei controlli, servono anche profonde riflessioni di natura culturale, cioè una riconsiderazione delle idee che hanno determinato le attuali strutture dell’economia capitalistica di mercato. Questo per le banche, e per il sistema finanziario in generale, significa che:
 

La crisi attuale dà ragione a chi dice che le banche, oltre a essere imprese, svolgono anche il ruolo di infrastrutture, quindi si pongono nell’area del quasi-mercato (un loro fallimento produce sempre un effetto domino oggi difficile da circoscrivere);

Bisogna tornare a legare maggiormente le banche al territorio di riferimento; si accrescono così le responsabilità e si migliora la conoscenza, e quindi l’operatività con prodotti mirati;

Occorre premiare tutti i fattori che contribuiscono alla creazione di ricchezza duratura (quindi vanno ripensati anzitutto i parametri a cui legare le stock option e ogni altra forma di incentivo del management);

La crisi evidenzia infine che i soldi vanno prestati soprattutto a chi ha capacità e rischia con concreti progetti imprenditoriali. E proprio per svolgere tale compito di selezione e sostegno, il sistema bancario è chiamato a rinnovarsi sul piano qualitativo.