C’è un dossier che ingombra i tavoli dei capi della diplomazia in molte capitali europee. Si intitola: “Come affrontare il XXI secolo?”. In realtà il XXI secolo è cominciato con il crollo del Muro, il muro per antonomasia, ma è solo dopo quasi venti anni che il tema è diventato così bruciante. Pensiamoci un istante. Il primo periodo dopo la fine del comunismo è stato ispirato a visioni positive: la storia (nel senso dei grandi conflitti e dei grandi drammi) è finita, la pace e la pacificazione avanzano, si entra nel tempo dell’economia e dei commerci (e dove ci sono commerci difficilmente ci sono conflitti), la politica mondiale è assicurata dagli Stati Uniti, la soluzione per il Medio Oriente è ormai a portata di mano (colloqui di Madrid, accordi di Oslo) il vero ultimo nemico è la povertà dell’Africa. Una luna di miele durata meno di un decennio: mentre si chiudeva la “parentesi” delle guerre balcaniche (da molti considerate l’atto finale del crollo comunista) cominciava a crescere l’ombra del terrorismo musulmano, fino a giganteggiare su tutto l’Occidente con le stragi di New York, Madrid e Londra. Le visioni sono diventate fosche e preoccupate. La guerra che doveva esportare la democrazia si è risolta in un vicolo cieco e l’area critica dove si coltiva un islamismo ben più che radicale si è addirittura estesa ad una regione del mondo che include Irak, Iran, Afghanistan, Pakistan. Sette anni dopo le Torri Gemelle (precedute, occorre non dimenticarlo, da una impressionante serie di attentati antiamericani), anche la parola d’ordine della guerra al terrorismo, che all’inizio sembrava nutrire inedite e compatte solidarietà tra Est e Ovest e anche tra Nord e Sud, è ormai evanescente.
Ecco il perché di questo “nuovo” dossier che tiene svegli molti diplomatici e consiglieri politici di svariate cancellerie continentali. I temi da svolgere sono i seguenti: 1) la Russia vuole contare sempre di più, gli Stati Uniti vogliono contenere sempre di più (la Russia); 2) gli impegni implicati dalle missioni “di pace” internazionali con un forte concorso europeo (Afghanistan, Libano, Balcani) sono sempre più onerosi, in tutti i sensi e tendono a prolungarsi indefinitamente, senza contare il fatto che non si vede all’orizzonte una credibile soluzione per Israele-Palestina-Terrasanta, né una strada chiara per l’Irak; 3) la spinta vertiginosa della globalizzazione impressa dagli accordi WTO ha portato sì a galla nuovi protagonisti (India, Cina), ma ha anche terremotato sistemi di regole acquisite e aperto falle paurose nel tradizionale sistema delle relazioni e delle organizzazioni internazionali; 4) l’aiuto pubblico allo sviluppo dei paesi poveri e in particolare dell’Africa è ormai una evidente ipocrisia: in realtà i governi europei stanziano sempre meno soldi (ma non vogliono ammetterlo) perché hanno sempre meno soldi. A fronte di ciascuno di questi temi, come si colloca uno qualunque dei piccoli grandi d’Europa, quali scelte deve o può compiere? E l’Europa insieme? Si è tanto propagandato l’accordo “ottenuto dall’Europa” per tamponare la crisi georgiana, ma la desolante realtà è che le truppe russe stazioneranno a lungo in Ossezia e Abkhazia, ormai praticamente annesse (e sui giornali americani sono fioccati i commenti sarcastici sulla leadership di Sarkozy).
Imponenti domande, ma nessuno sta trovando risposte. Intanto si studia e si discute molto.