Diciamo subito che, di fronte ai salvataggi delle banche e delle agenzie federali Usa o dell’inglese Northern Rock, l’intervento dello Stato italiano in Alitalia è davvero poca cosa. Non solo perché l’entità delle cifre in ballo è ben diversa, ma anche perché le operazioni della Fed e della Bank of England hanno fatto da paracadute ai banchieri e alla grande finanza. Per dirla com Jim Rogers, leggendaria figura di Wall Steet, «Bernanke e il ministro del Tesoro Paulson stanno salvando gli amici banchieri a spese dei contribuenti americani, anche quelli che hanno perduto la casa». Nel caso di Alitalia, per quanto si possano detestare le varie “Aquila selvaggia” o i protagonisti di decenni di gestioni dissennate, non si va al di là della tutela di posti di lavoro.
Ma sull’altro piatto della bilancia va messo l’effettivo interesse sociale delle operazioni. I salvataggi bancari, materia in cui siamo stati pionieri ai tempi dell’Ambrosiano, sono necessari per assicurare la stabilità del sistema. Certo, in Usa si è andati assai al di là, perché il paracadute è stato aperto a vantaggio non solo delle banche commerciali (quindi dei conti correnti dei depositanti) ma delle grandi banche d’affari vittime il più delle volte dell’eccessiva ingordigia che ha fatto aumentare a dismisura il rischio finanziario. Con il risultato che i banchieri cacciati dai piani alti di Manhattan oggi si consolano con liquidazioni da 100 milioni di dollari in su. Però, si tratta di un sacrificio necessario per evitare che la crisi investa, per un perverso effetto domino, l’intero castello della finanza, con pericoli incalcolabili ma senz’altro nefasti un po’ per tutti. Non solo in America. Da quel punto di vista, lo sforzo italiano per salvare, sotto le insegne dell’italianità, non una ma due compagnie nostrane, appare senz’altro meno necessario.
Non entriamo nell’ormai stucchevole dibattito se fosse meglio Air France piuttosto che la “cordatona” messa a punto da Banca Intesa. La realtà è che l’Alitalia, così come era stata offerta ad italiani e non nella prima fase della privatizzazione, non interessava nessuno. E non dimentichiamo che nei sette trimestri presi in considerazione (dall’ottobre 2006 al giugno del 2008) la compagnia di bandiera ha accumulato la bellezza di 1,1 miliardi di euro, ovvero tre volte tanto quanto è stimata la new company. Già, la nuova Alitalia, ripulita dai debiti, forte di un accordo sindacale complessivo, magari liberata dagli equivoci che la condizionano da sempre (Malpensa/Fiumicino, Malpensa/Linate, i collegamenti obbligati su rotte destinate a sicura perdita), piace a tutti. E lo stesso vale per Air One, salvataggio nel salvataggio (non sfugga che i creditori di Carlo Toto, banche in primis, non finiranno nella bad company). In sostanza, per offrire agli italiani la soddisfazione di viaggiare su vettori tricolori (privilegio che Lufthansa ha comunque garantito ai passeggeri della controllata Swissair), lo Stato si è accollato un costo, tra ricollocazione del personale, perdite per l’azionista Tesoro e pendenze con i creditori di vario titolo, un onere che si aggirerà su 1,5/2 miliardi, che vanno ad aggiungersi a quelli sfumati per il passivo di gestione: almeno 3 miliardi dall’ottobre 2006 all’ottobre 2008. In cambio di cosa? Una quota di mercato attorno al 25 per cento grazie alla creazione di un quasi monopolio sulle rotte interne (con il pericoloso precedente della deroga alla normativa antitrust). Un giro d’affari pari ad un quinto di Air France (che vanta più aerei sulle rotte intercontinentali dell’intera flotta di new Alitalia) oppure, per citare l’altro possibile alleato nel capitale, un settimo dei dipendenti di Lufthansa.
In sintesi, l’operazione in termini economici non è di facile comprensione. Né vale più di tanto l’obiezione che un vettore straniero avrebbe privilegiato le rotte domestiche a danno del nostro turismo. In questi anni, l’Alitalia tricolore non ha certo favorito l’arrivo di frotte di visitatori stranieri. Anzi, il boom degli arrivi dall’estero (dagli Usa in particolare) ha interessato gli scali di Venezia e di Pisa che si sono emancipati dalla compagnia di Stato. Per trovare una spiegazione, insomma, bisogna uscire dall’arido linguaggio della “triste scienza”. Senza farsi coinvolgere dalla cronaca politica. Il fatto è che l’intervento dello Stato in Alitalia, per quanto costoso e poco ortodosso, ha un grande valore simbolico: lo Stato torna a garantire “sicurezza” ai lavoratori ed ai risparmiatori (vedremo come). E gli imprenditori possono impegnarsi in una privatizzazione con l’ombrello. Un sacrificio per le casse pubbliche che si può giustificare solo con il richiamo alla bandiera perché sarebbe assurdo garantire condizioni di favore ad operatori o privati di altra nazione (anche se Air France o Lufthansa ne beneficeranno, soprattutto nel medio termine).
Un passo indietro? Vedremo. Per ora sono chiari i costi: le spese a carico dello Stato, investimenti che avrebbero garantito un ritorno maggiore in altri settori; strappi alle regole che produrranno interventi certi dei tribunali con esiti e durata incerti. Ma si tratta di spese utili se aiuteranno a ricreare un clima di fiducia, favorevole alle iniziative imprenditoriali. Guai, al contrario, se la riedizione dell’intervento sotto la regia i Stato aprirà una nuova stagione di corsa alla diligenza. A danno della sussidiarietà vera.