Noti commentatori alcuni anni fa inneggiavano al modello capitalistico-finanziario puro come il toccasana di tutti i mali, come se non fossero già capitati gli scandali Enron, Parmalat, fondi argentini in cui emergeva con tanta chiarezza la responsabilità di questo stesso mondo finanziario.
Perciò si attaccava il sistema finanziario europeo e italiano considerato arretrato rispetto a quello americano e di cui avrebbe dovuto diventare una sorta di provincia. Oggi succede che, mentre gli stessi commentatori inneggiavano al mancato salvataggio di Lehman Brothers, lo stesso governo americano non si è fidato del liberismo senza regole per porre rimedio alla situazione, ed è intervenuto salvando Bear Stearns, Fannie Mae, Freddie Mac, Aig.
L’America stessa, e in particolare la presidenza Bush, tradizionalmente considerata in difesa del mercatismo, ha decretato la fine dell’idea che il libero mercato sia in grado da solo di porre rimedio alle storture che lui stesso crea.
Come nel nostro piccolo, in Italia, i prestiti vengono concessi a chi ha le garanzie e non a chi ha un progetto imprenditoriale valido, così, nel sistema americano, invece di interrogarsi su ciò che ha valore per l’economia reale, l’orientamento è quello di proporre indiscriminatamente prodotti standardizzati, guardare solo le trimestrali e avere come unico obiettivo quello di prendere le commissioni. Con questa logica si è giunti a illudere milioni di persone di potersi permettere l’acquisto di case con mutui che non avrebbero potuto pagare, costruendo poi spezzatini di titoli sempre più avulsi dalla realtà nell’illusione di scongiurare e diminuire (o meglio, di spostare su altri) il rischio insolvenza.
Ne consegue che il sistema è messo in ginocchio da crisi che sono di liquidità, come quella di Lehman Brothers: Lehman Brothers ha perso il 90% del suo valore, ciò significa che il valore accordato in base a domanda-offerta è un valore artificioso e che gli scambi di borsa non sono in grado di offrire al mercato informazioni sul valore reale di ciò che trattano.
E, ancora, come dimostra la polemica già innescata sulla possibile liquidazione dei supermanager di Aig, enorme in sé e del tutto avulsa dal valore dell’azienda, occorre aggiungere che le retribuzioni di tipo flessibile, come le stock option per il top management, non hanno alcun nesso con la produzione di ricchezza reale delle loro aziende.
In questo quadro il punto non è mettere in discussione il mercato, né il mercato a struttura capitalistica che contiene un valore in sé da salvaguardare. O, peggio ancora, non è certo auspicabile il ritorno a un regime statalista, figlio di una cultura estrema dall’altra parte (garantismo, indebitamento pubblico…)…
Il punto è ammettere che questa non è una crisi solo economica: è una crisi antropologica che mette in discussione un’idea di razionalità umana ridotta, tesa com’è alla massimizzazione del profitto nel breve periodo, ma disattenta ai presupposti necessari a creare una ricchezza reale e duratura e perciò destinata ad astrarsi dalla realtà e a costruire un mondo virtuale destinato a crollare. Per guardare lontano occorre una razionalità che metta in luce come già ora anche l’homo oeconomicus ha altri moventi ben più vasti del solo profitto trimestrale avulso dal contesto. Occorre un più sano realismo che agganci stabilmente la finanza all’economia reale, di cui è e deve essere solo strumento. Da questo punto di vista, dopo aver demonizzato molti aspetti del nostro sistema economico, occorre forse rivalutarne alcuni, quali quel radicamento sul territorio e quell’attenzione all’economia reale che ne è ricchezza non ancora del tutto estinta. Che si parli di micro e macrocosmo, realismo e nuova razionalità sono indispensabili per ogni futuro sviluppo.
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