Oggi si parla molto di riforma della pubblica amministrazione, di new public management, di incrementi di efficienza e di efficacia. È una riforma possibile: non occorre essere i migliori amministratori del mondo né trovare una miniera d’oro per finanziare le richieste sempre crescenti di servizi di qualità. Si può fare molto, a risorse invariate e con il capitale umano di cui già disponiamo, come sembra voler dire il Ministro Brunetta con l’iniziativa “Non solo fannulloni”, che mira a scovare e condividere le migliori pratiche amministrative nazionali. Serve però il coraggio di buttare l’occhio fuori dal “palazzo” per scoprire quello che i cittadini e i corpi intermedi inventano e costruiscono per rispondere ai propri problemi. Serve la volontà di sostenere e favorire la società. Serve, in una parola, uno spirito di vera sussidiarietà.
L’ideale di una burocrazia perfettamente oliata, asettica e spersonalizzata è lontano anni luce da questa visione: occorre sapere rischiare e scommettere sulla libertà delle persone. Rischio e libertà fanno di una pubblica amministrazione una amministrazione sussidiaria. E rischi quando ti sposti dagli obiettivi ai risultati, scommetti sulle persone, lasci che siano loro a decidere dove andare, anche in direzioni totalmente diverse da quelle che avevi previsto. Allora sei costretto a riconoscere che i risultati non sono garantiti, perché non dipendono solo dall’azione amministrativa, ma dalla libertà delle persone che, sia dentro che fuori dall’amministrazione, si confrontano con una realtà complessa e mutevole.
Passa da qui la capacità della PA di innovare, ad esempio proponendo nuove modalità di finanziamento o di aggregazione delle risorse. Come sta accadendo in Lombardia con la dote, che ha completamente ribaltato i rapporti tra l’ente pubblico e gli stakeholder nel campo dell’istruzione, della formazione e del lavoro. Con la dote, infatti, le risorse seguono la persona, che è libera di scegliere l’offerta che più la soddisfa all’interno di una rete di operatori pubblici e privati accreditati, che competono per proporre servizi personalizzati. La Regione detta le regole, controlla il sistema e valuta i risultati, senza pretendere di gestire tutto in prima persona. Il fallimento del welfare state non è dunque la fine di tutto: può essere l’occasione di un nuovo protagonismo civile e sociale.
Cosa può facilitare questo processo in atto? Sicuramente il federalismo fiscale. In Italia lo Stato attua una gigantesca azione redistributiva tra Regioni, ma con grandi sprechi e senza diminuire le diseguaglianze tra le aree del Paese. Il punto di partenza per realizzare il federalismo è il superamento delle attuali modalità di trasferimento di risorse dallo Stato agli enti locali: è urgente approdare a un sistema che non faccia più riferimento alla “spesa storica”, ossia al trasferimento di quanto speso negli anni precedenti, ma ai “costi standard”, con l’individuazione dell’ottimale di costo per le diverse funzioni. Prendiamo il caso dell’istruzione, oggi finanziata centralmente dallo Stato attraverso il pagamento del costo del personale e delle spese di funzionamento degli istituti: anche così le disparità sul territorio nazionale sono rilevanti da tutti i punti di vista. Il finanziamento a costo standard permetterebbe invece di valutare realmente “quanto costa uno studente”, modificando di conseguenza i trasferimenti alle Regioni e superando anche l’inefficienza di tutti quei casi in cui l’educazione di un ragazzo viene pagata due volte, come per chi si iscrive a una scuola paritaria o per chi sceglie un corso di formazione professionale.
Il federalismo fiscale non è l’unico intervento necessario – occorre rivedere le modalità di reclutamento e gestione del personale, bisogna scommettere sul merito e sulla valutazione (dei risultati e non delle procedure), e investire decisamente sulla leva della formazione – e non è la panacea di ogni male, ma, se attuato con intelligenza, può diventare il volano per una efficace riforma della scuola e di tutta la pubblica amministrazione.