Per l’editoriale di oggi confesso che prenderò a prestito le parole di Samir Kassir, giornalista libanese di squisita lucidità, arabo del Mashreq, laico, acculturato e perfino occidentalizzato – così si autodefinisce in un pamphlet scritto tra Beirut e Parigi nel 2004 e pubblicato anche in Italia due anni dopo con il titolo “L’infelicità araba” (Einaudi).
Impossibile interpretare meglio di Kassir il mood, il sentimento profondo che percuote l’anima del mondo arabo, e non avrebbe senso pretendere di formulare osservazioni più acute e competenti. Si tratta di un sentimento che occorre conoscere e comprendere, vivere dall’interno, se possibile, rispettare, magari anche amare – il che non significa condividere o astenersi dal giudicare. Non in tutte, ma in tante delle sue pagine si resta colpiti dalla potente attualità di un breve e struggente atto di pensiero pieno di amore per il proprio popolo e la propria storia.
«Non è bello essere arabo di questi tempi. Senso di persecuzione per alcuni, odio di sé per altri, nel mondo arabo il mal di esistere è la cosa meglio ripartita […]. Ad eccezione dell’Africa sub-sahariana il mondo arabo è la zona del pianeta dove, oggi come oggi, l’uomo ha minori opportunità. A maggior ragione la donna. E per prima cosa questa parola, “arabo”, che qui e là viene impoverita al punto da ridurla a una etnicità di colpo tacciata di infamia, o nel migliore dei casi a una cultura negatrice.
Eppure questa infelicità non c’è da sempre […] c’è stata un’epoca non molto lontana durante la quale gli arabi potevano proiettarsi con ottimismo nel futuro. La rinascita culturale del XIX secolo, la famosa Nahda, mise molte società arabe al passo con la modernità […], nel XX secolo […] dal Cairo a Bagdad e da Beirut a Casablanca, pittori, poeti, musicisti drammaturghi e romanzieri contribuivano a riformulare una cultura araba nuova e vitale. In parallelo, i costumi sociali registravano indiscutibili mutamenti, il più spettacolare dei quali è stata la rivoluzionaria azione di togliersi il velo, oggi rimessa in discussione.
[…] Come ha fatto a interrompersi quest’epoca […]? Come si è arrivati al marasma odierno, un marasma forse più intellettuale e ideologico che materiale, ma che sortisce l’effetto di far credere agli arabi di non avere un futuro diverso da quello che un millenarismo patologico ha in serbo per loro? Come si fa a discreditare una cultura vitale per consacrarsi al culto della sventura e della morte?».
Ecco alcuni titoli del paragrafi del “manifesto del dissenso arabo” (dalla copertina): Come gli arabi siano oggi gli individui più disgraziati del mondo, anche se non lo ammettono; Come la modernità non sia stata l’epoca dell’infelicità; Come l’infelicità non sia il risultato della modernità, ma del suo mancato compimento; Come la più grande infelicità degli arabi stia nel rifiuto di venirne fuori ma come, pur senza pretendere la felicità, un equilibrio sia possibile.
All’età di quarantacinque anni, dopo aver guidato le grandi manifestazioni della “primavera libanese” seguita all’assassinio del premier Rafiq Hariri, Samir Kassir è stato ucciso in un attentato a Beirut. Era il 2 giugno 2005, un’altra data dell’infelicità araba.