La lista delle cose da fare è lunghissima. Quella delle cose che si possono fare è invece necessariamente più corta.

Si tende, sbagliando, ad attribuire al presidente americano poteri quasi illimitati. La Costituzione statunitense dà una discreta libertà di manovra all’inquilino della Casa Bianca in politica estera e sulla sicurezza. Sul fronte interno, dalla definizione del budget alle politiche sociali, invece è indispensabile la sintonia fra presidente e Campidoglio.

Sarà bene ricordarlo ed evitare di considerare Barack Obama un supereroe dotato di bacchetta magica. Anche se il Senato e la Camera sono sotto il controllo dei democratici, le sfumature all’interno del partito pesano. Sulle questioni etiche, sui soldi da destinare al Pentagono, sulla riforma della Sanità e sulle politiche per l’istruzione i democratici sono una babele. A Obama toccherà tenere conto di ogni prospettiva prima di partire lancia in resta. Evitare di usare l’arma del veto come una clava è fondamentale. Così come stabilire relazioni buone con l’altra sponda di Pennsylvania Avenue.

Tuttavia il 44esimo presidente Usa e primo afroamericano a ricoprire l’incarico parte con il vento in poppa dell’entusiasmo e della fiducia della Nazione (e del mondo intero, o quasi). Farà bene ad approfittare del credito quasi illimitato nei primi giorni di navigazione. Perché al primo errore (grave) la fiducia si incrinerà. L’idillio con gli americani non potrà durare in eterno.

Nei primi giorni, diciamo le prime cento ore, il neopresidente firmerà importanti executive order: la chiusura di Guantanamo su tutti. Gesto tutt’altro che simbolico. Per molti segna l’inversione di rotta rispetto all’America “buia” di Bush. Può darsi. Pochi però ricordano che ci vorranno mesi (forse anni) prima che il famigerato carcere sull’isola cubana sia smantellato.

Prima Obama però dovrà rispondere a una domanda: “Che soluzioni ho per continuare a difendere l’America e a dare la caccia ai terroristi?”. Se Guantanamo non è la risposta, trovare una valida alternativa è decisivo prima di mettere i lucchetti alla prigione e celebrare processi ai terroristi nei tribunali militari e/o civili. Quanti alleati o Paesi stranieri sono disposti a riprendersi i detenuti? L’Amministrazione Bush su questo ha trovato porte sbarrate. Basterà l’appeal di Obama per convincere i recalcitranti alleati che trattenere nelle loro prigioni i combattenti nemici è nell’interesse della sicurezza globale?

La lotta al terrorismo resta il filo conduttore fra Bush e Obama. Immaginare ex novo un modo di condurla è difficile. Obama potrebbe in fondo proseguire sulla stessa rotta del suo predecessore. Bush gli lascia il piano per il ritiro delle truppe dall’Iraq e la decisione di aumentare il contingente in Afghanistan. Grandi colpi di “genio” su questi due fronti appaiono improbabili. L’Iran è la più grande sfida, come ammesso dal neoleader. L’Amministrazione Bush ha dialogato su alcune questioni (Afghanistan e ricostruzione in Iraq) con Teheran. Sostegno al terrorismo e nucleare sono però spade di Damocle sulla testa del mondo. Obama vorrebbe aprire il dialogo con la Repubblica islamica. È una mossa tanto azzardata quanto coraggiosa. Valutare pro e contro di unengagement è il primo requisito.

L’attesa più grande per le prime ore poggia sull’approccio che Obama e i suoi consiglieri avranno nei confronti della crisi di Gaza. Il cessate il fuoco facilita solo in parte il discorso. Obama dovrà mostrare di avere delle idee chiare. Alcuni del suo staff spingono per una diplomazia “avvolgente”, forte, modello Bill Clinton. Ripetere quell’esperienza che non ha dato i frutti sperati in un clima, quello odierno, diverso dove l’equazione “peace for land” non tiene, rischia di essere un autogol.

Hillary ha promesso che non dialogherà con Hamas. Una posizione comprensibile sulla linea di quella di Bush. Ma lo staff di Obama, infarcito di esperti di questioni mediorientali, ha le carte in regola per escogitare qualche soluzione. A patto che l’America non voglia diventare essa stessa il “broker”. La pace – o più realisticamente la convivenza – la devono trovare palestinesi (di ogni fazione) e israeliani (di ogni gruppo). Un accordo imposto dall’alto sarebbe solo un autogol.

Ma se sulla scena internazionale l’Europa imparerà a capire, leggere, decifrare i movimenti di Obama, è sulla scena interna che il neopresidente metterà la gran parte delle energie. La crisi economica è forse la voce che assomma il 90% delle sue preoccupazioni. Obama vuole approfittare del disastro finanziario, occupazionale e produttivo per riscrivere le regole del gioco del mercato, del ruolo dello Stato nell’economia e del welfare. Obama è un pragmatico, ma la sua visione economica è chiaramente keynesiana. Mettere i soldi federali per rilanciare l’economia è un’idea. Potrà funzionare. L’importante è interpretarla in senso popperiano: se non funziona, si cambi rotta. L’ideologia della spesa pubblica sarebbe peggio della malattia che vuole curare.