Ma quante saranno le case distrutte a Gaza? Quattromila, seimila, diecimila, venticinquemila con le danneggiate? E quanti miliardi di dollari servono per la ricostruzione? Chi li darà, chi li gestirà?
Una fretta indiavolata di “voltare pagina”, di chiudere il libro della guerra con le sue brutture (in proposito, resta difficile da digerire la frase di una ministra israeliana peraltro stimabile sulle morti dei civili a Gaza come “frutto delle circostanze” – occorre sperare in una cattiva traduzione o in una maliziosa citazione) per aprire il rassicurante libro della “ricostruzione”, dove in fondo si tratta semplicemente di soldi, ha dominato il clima generale dopo l’annuncio della tregua unilaterale decisa da Israele.
In coda a ciò, da registrare nella categoria “commedia” le dichiarazioni dei leader di Hamas che danno sette giorni di tempo all’esercito nemico per uscirsene fuori da Gaza; e nella categoria “tragedia” la ricomparsa dei miliziani di Hamas nelle stesse strade di prima.
Comunque, siamo al tema cosa fare ora. Presidiare i valichi di Rafah con i carabinieri, ottenere garanzie dall’Egitto, riammettere Al Fatah a Gaza, indire un nuovo vertice tra gli arabi sempre più spaccati (la “nostra amica” Libia ha partecipato a quello pro Hamas a Doha), chiedere a Israele una proposta nuova, aspettare Obama – ed è ciò che in realtà accadrà.
Ma niente di tutto ciò, incluso Obama, basterà a riaprire davvero il libro che conta, quello della pace, o almeno a congelare positivamente quella che l’Economist ha definito “la guerra dei cent’anni”. Pensiamoci seriamente, sono quattro o cinque generazioni umane. Una interminabile convivenza con la morte, l’esilio, il terrore, l’odio, la disperazione.
Non sarà un cerotto, anche se costosissimo, messo sulla ferita di Gaza a consentire di incamminarsi verso la meta cui tutti agognano (o quasi: restano fuori quelli che hanno trasformato una cultura vitale in cultura della morte e della sventura, come scriveva il libanese Samir Kassir), una meta così visibile eppure così irraggiungibile. Anche la diplomazia mondiale dovrebbe riconoscere che le soluzioni politiche sono la conseguenza di atti della volontà e della libertà.
Le forze che cambiano la storia – affermava don Giussani – sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo. In queste parole, che solo i cinici e i superficiali possono tacciare di irenismo o ingenuità, c’è un metodo – ipotizziamo: il metodo – per vivere responsabilmente il proprio cammino nel mondo e per costruire soluzioni sociali e politiche valide per la storia, o anche contro la storia, se essa appare come un’inesorabile alienante carneficina.
Un metodo all’altezza delle struggenti parole usate da David Grossmann (in un articolo comparso martedi su Repubblica) in cui la richiesta di un cambiamento della politica assomiglia a una richiesta di “conversione” dell’origine della politica. Si può fare? Si può vedere questo metodo all’opera? Agisce realmente nella storia? Si riesce a verificare che non si tratti di un patetico sforzo morale? C’è qualcuno in grado di dimostrare che si tratta di un principio generatore di sviluppo sociale, di integrazione umana, di soluzioni politiche e persino diplomatiche?
Sì, possiamo rispondere di sì a tutto. Con la drammatica consapevolezza che non parliamo di una ricetta né di una soluzione, ma di un metodo che coincide con la vita stessa e che nella vita trova il suo alimento, e qualche volta il suo prezzo.
È l’avventura di Marcos e Cleuza Zerbini con i centomila senza terra e senza università di San Paolo del Brasile. È quella di padre Aldo Trento e del suo popolo di Asuncion. E di Rose Busingye e della sua baraccopoli di Kampala (da queste storie viene fuori tra l’altro una certa questione sul Terzo Mondo che merita di essere affrontata). E di tanti altri dovunque nel mondo, inclusa la Terrasanta-Israele-Palestina.
Ci inganniamo se pensiamo a queste realtà come ad “esempi” dovuti all’eccezionalità delle persone o delle condizioni. È il metodo ad essere eccezionale.