In questi giorni si sta spesso agitando la domanda su quali saranno i costi del federalismo fiscale. La domanda è così impropria che sembra strumentale ad altri obiettivi. È evidente, infatti, che la vera domanda sarebbe piuttosto quella su quali sono i costi che derivano dalla mancanza del federalismo fiscale.
Unioncamere Veneto, qualche mese fa ha prodotto un interessante documento al riguardo, appunto dal titolo “I costi del non federalismo”. Quello che sappiamo con certezza oggi in Italia è, infatti, che proprio la mancanza di federalismo fiscale ha creato il peggiore dei mondi possibili: per effetto dei processi di decentramento degli ultimi anni (riforma Bassanini e poi riforma costituzionale del 2001) è aumentato enormemente il potere di spesa degli amministratori regionali e locali, ma il cantiere federalista è rimasto fermo in un modello di finanza derivata, dove lo Stato ripiana a piè di lista i buchi e chi spende male è premiato e chi è efficiente è punito, chi manda in dissesto il bilancio di un Comune continua imperterrito la propria carriera politica, ecc.
A tutto questo la riforma, con una valorizzazione del principio di responsabilità che a memoria non è dato riscontare in altra legge italiana (v. l’audizione di Mario Bertolissi al Senato), è destinata a scrivere la parola “fine”. Il fatto che la riforma sia stata condivisa dall’opposizione e che le Regioni ed Enti locali l’abbiano approvata all’unanimità, ha un grande valore anche economico, perché è garanzia di un patto di razionalizzazione della spesa pubblica che sarà difficile non rispettare.
Il disegno di legge approvato dal Senato, infatti, si fonda su due principali coordinate: la prima è quella del passaggio dalla spesa storica al costo standard, la seconda è quella dell’introduzione di un’autonomia impositiva responsabile a livello di Regioni ed Enti locali. La prima opera sul lato della spesa: si passerà dal finanziare i servizi in base a quanto si è speso in passato (senza considerare gli sprechi, le inefficienze, le pletore di personale, le cattive prassi amministrative e finanche l’illegalità di certi comportamenti), a un finanziamento del solo costo standard (che coprirà la spesa per i servizi – sanità, assistenza, istruzione, trasporto – ma non coprirà più lo spreco, l’inefficienza, ecc.).
La seconda coordinata sarà parametrata sulla prima, cioè sarà definita un’autonomia impositiva sufficiente a coprire quanto è necessario per garantire i costi standard. In queste due coordinate sta il cuore della riforma, destinata superare i finanziamenti a piè di lista, tipo quello attuato nell’ultimo anno del governo Prodi con dodici miliardi di euro (una cifra impressionante) a favore di cinque Regioni del Sud in extradeficit sanitario.
Chiunque può andare a leggere le relazioni della Corte dei Conti sulla situazione di quelle cinque Regioni, per trovarvi denunce impressionanti di sprechi pubblici, di macchine della Tac comprate senza collaudo, di rimorsi indebiti, ecc. Non sorprende, in questo contesto, che la spesa sanitaria in Italia sia raddoppiata negli ultimi 10 anni passando dai 55,1 miliardi del 1998 ai 101,4 miliardi del 2008, mentre si ipotizza che possa addirittura arrivare a 120 miliardi nel 2010!
La riforma approvata al Senato detta ora i criteri per uscire dal tunnel di questa situazione, appunto individuando, per circa il 90% delle funzioni regionali e locali, il criterio del finanziamento al costo standard, cioè in base a quanto effettivamente serve per fornire in una condizione di media efficienza un determinato servizio.
Il dato del risparmio che questo processo è destinato a permettere non può però essere prodotto ora, perché la riforma prevede che i costi standard siano definiti di concerto con Regioni ed Enti locali nella fase dei decreti legislativi. Qui gli enti efficienti saranno interessati a fissare in basso l’asticella dei costi standard, quelli inefficienti faranno resistenza, il Governo farà da arbitro tra i controinteressati. Sarà una partita delicata e non si può sapere ora quale sarà l’esito.
Non si può quindi chiedere – anzi è logicamente sbagliato farlo – al Ministro dell’Economia di dire adesso l’impatto finanziario di una riforma che dipende da una variabile di tale portata. Né è il caso che il Parlamento, invece che sui principi, si metta a discutere su quale deve essere il costo standard di una degenza ospedaliera o di una risonanza magnetica.
Ed è giusto che sia così, perché se la definizione del costo standard fosse solo calata dall’alto, con tutta probabilità non sarebbe accettata da Regioni ed Enti locali e sarebbe destinata, in fase di applicazione, a incappare in quei blocchi che – come in passato – hanno riportato poi in vita l’infernale criterio della spesa storica.
Quello che è certo, però, è che il finanziamento in base al costo standard porta per definizione a un risparmio e una razionalizzazione della spesa pubblica, perché introduce un solido criterio di efficienza e di responsabilità. Questa responsabilità sul lato della spesa è poi rinforzata sul lato dell’entrata perché gli amministratori regionali o locali che spenderanno più del costo standard dovranno chiedere le risorse aggiuntive ai loro elettori, senza più poter minimamente contare sui ripiani a piè di lista da parte dello Stato.