In un cartoncino d’auguri inviatomi per le recenti festività natalizie da un amico imprenditore, che in quel di Sauris produce un ottimo prosciutto, è riportata questa frase di Alessandro Manzoni: «Si dovrebbe pensare di più a far bene che a star bene e così si finirebbe anche a star meglio».
È vero, ed è una verità particolarmente adatta al periodo che stiamo attraversando e che caratterizza l’attività della maggioranza degli imprenditori del nostro paese. Grande è il fervore che chi conosce le imprese percepisce al loro interno: c’è fiducia nei propri mezzi, voglia di rischiare, capacità di fare bene. Certo c’è incertezza per tutto quello che capita in giro per il mondo, non pessimismo.
Anche lo scorso anno sono più le aziende nate che quelle che hanno cessato l’attività: esattamente il contrario di ciò che avviene nella popolazione dove il calo demografico, senza il contributo decisivo degli immigrati, sembra difficile da arrestare. Qui forse c’è aria di declino, non nel nostro sistema economico in cui alberga fatica e preoccupazione, non paura.
In questi frangenti occorre essere certi delle proprie capacità e ancorati alla realtà, che consiste di un capitale imprenditoriale diffuso: è attorno a questo fatto che occorre costruire nell’interesse di tutto il paese. Grave sarebbe interpretare l’insuccesso di alcuni, di cui peraltro occorre farsi carico il più possibile, con una sostanziale debolezza dell’intero sistema.
Sembrano dunque ragionevoli le parole del ministro Tremonti, che in un recente incontro ha invitato a cambiare il meno possibile del modo di fare impresa nostrano.
Se la soluzione non sembra essere nel cambiamento della modalità d’azione, occorre invece sfruttare questo difficile momento per riappropriarsi delle ragioni più vere dell’agire economico. Sul piano culturale occorre vincere definitivamente la diffidenza che vede nel mondo dell’impresa qualcosa di estraneo, di secondario se non di nemico rispetto alle sorti di una nazione, e nell’imprenditore un padrone più che un datore di lavoro.
Troppo spesso le persone ispirate da valori alti, forse troppo alti, discettano del modo migliore con cui ridistribuire le risorse, dimenticandosi che queste prima vanno prodotte e che ad oggi lo strumento insuperato per questo fine è, e resterà ancora a lungo, l’impresa. Riconoscere, non solo simbolicamente, la figura dell’imprenditore può essere utile anche a sottolinearne i doveri sociali, a temperarne l’iniziativa privata nell’interesse della collettività più ampia, ad emarginare figure imprenditoriali, poche per la verità, che, nel loro essere più simili a pirati che a costruttori di imprese, ne danneggiano l’immagine complessiva.
Si pone anche un problema di competenza. Al capitale imprenditoriale deve affiancarsi un capitale professionale che aiuti a sviluppare le intuizioni del primo: è questo il campo di scuole e università per la parte formativa e di ricerca, ma anche di tutte quelle infrastrutture manageriali che con la loro azione possono rendere più incisiva e competitiva l’attività dell’impresa.
È, in generale, il tema delle sorti future del capitale umano nel nostro paese: occorre investirvi con molta più decisione, consci che la competenza, lungi dall’essere un fine, è un mezzo insostituibile per produrre ricchezza, anche in termini sociali. Così come cultura senza competenza portano ad uno sterile buonismo, competenza senza cultura generano solo vuota tecnocrazia.
Cultura, dunque, per affrontare il difficile momento nel modo più corretto, e competenza come propellente, ma educazione come elemento di base per rendere possibile e virtuoso l’intero ciclo. Educazione che motiva la persona ad assumersi responsabilità e rischi personali, anche a livello economico, educazione che stimoli ad imparare da qualcuno ciò che poi sarà trasmesso ad altri, educazione che vincoli la distribuzione delle risorse create secondo la prospettiva del bene comune, educazione che nasce da una certezza di un senso per sé.