Per Istat la produzione industriale italiana è salita ad agosto del 7% rispetto al mese precedente, per Ocse del 2% rispetto ad agosto dello scorso anno. Dati indubbiamente positivi che, tuttavia, non hanno impedito a più di duecento imprenditori della zona di Varese, su mille adesioni pervenute al comitato organizzato dai coniugi Cassani, di ritrovarsi a Vergiate venerdì scorso per discutere di credito e fisco con i ministri Bossi e Tremonti.
L’economia reale sta faticosamente ripartendo e chiede una spinta al governo. Considero entrambe notizie positive, i risultati e l’aggregazione spontanea: so bene, e l’ho più volte riconosciuto, che tante variabili sono ancora in rosso e che dunque ci troviamo, pur sempre, in mezzo al guado, ma credo che nel buio della notte anche la più piccola fiammella indichi la strada e, soprattutto, infonda speranza e sproni a muoversi.
Altri invece preferiscono battere sui tasti dolenti, sulle cose che non vanno. Ultimamente, ad esempio, è tornata d’attualità la polemica sull’“ascensore sociale bloccato”, sulla difficoltà per i giovani di immaginarsi un futuro migliore rispetto a quello dei propri padri. “Italia futura”, il pensatoio promosso da Luca Cordero di Montezemolo, ha presentato settimana scorsa la ricerca “L’Italia è un paese bloccato. Muoviamoci!” in cui emerge, tra molte altre cose, che tra i nati nel periodo ’85-90 la percentuale di chi pensa di poter migliorare nel corso della vita la propria condizione sociale rispetto a quella della famiglia di provenienza è solo del 6% confrontata al 41% dei nati prima del 1950.
Le considerazioni da fare sarebbero veramente molte: per esempio si sottovaluta che gli stessi ragazzi pensano in ben il 74% dei casi di riuscire a mantenere le condizioni raggiunte dai propri genitori, condizioni positive e notoriamente di molto superiori a quelle di una famiglia italiana media degli anni ’50. Tuttavia preferisco argomentare raccontando un episodio che mi è capitato negli stessi giorni in cui questo pur importante lavoro veniva presentato.
Sono solito alternare le mie lezioni in università con l’invito a imprenditori delle piccole e medie imprese nazionali a raccontare agli studenti la propria esperienza. Settimana scorsa ho avuto come ospite Ardavast Serapian dell’omonima azienda di pelletteria milanese, esportatrice in tutto il mondo di prodotti classici di alta qualità. Si tratta di una famiglia armena in Italia dalla fine della prima guerra mondiale e qui approdata per effetto del tragico genocidio perpetrato dai turchi ai danni di quel popolo: lo stesso Ardavast è stato presidente della comunità armena in Italia.
L’azienda è stata fondata dal padre che, arrivato da noi solo con un fratello all’età di sedici anni e non essendoci risorse sufficienti da parte di un’associazione di soccorso per garantire ad entrambi di proseguire gli studi, iniziò a fare piccoli lavori con la pelle, poi portafogli e, infine, borse e valigie. Pochi mesi fa l’azienda, nel frattempo cresciuta per fatturato e dipendenti, ha aperto un monomarca in via Spiga e il figlio di Ardavast è in Inghilterra a seguire un percorso di ricerca in chimica che, probabilmente, lo porterà lontano dall’azienda, ma su strade di uguale successo.
No, non è il paese che è bloccato, tranne in alcune corporazioni comunque minoritarie, ma è la pancia che è piena e la testa ferma. Gli aspetti negativi di questa situazione, di per sé positiva, si contrastano con l’educazione delle persone, non con le riforme dello stato. È la famiglia, la chiesa e la scuola ad essere messe sul banco degli accusati ben prima dello stato.
Un altro imprenditore, questo del settore agroalimentare, venerdì sera raccontandomi in poche battute la sua storia di successo mi diceva: «Vede, queste (e alludeva a una formula particolarmente innovativa sperimentata una decina d’anni fa) sono cose che si fanno, quasi per disperazione, quando i soldi non ci sono: io ho rischiato tutto e mi sono indebitato per garantire un futuro ai miei quattro figli». Ma allora, forse, un po’ di crisi può aiutare a ridestare una voglia di fare sopita, a riprendere un cammino interrotto per motivazioni carenti. E allora si ritorna all’inizio, ma con una domanda in più: cosa è veramente negativo? E cosa positivo?