Quel premio triste tra Obama e GP II

Il Nobel per la pace è il premio della formica contro l’elefante, della velleità contro la realtà, del sogno contro la storia

D’accordo, il Nobel a Barack Obama è comico, più che un premio un auspicio, come quando a scuola la prof che sta valutando di darti un 5 passa al 6 “per incoraggiarti, ma non sederti sugli allori, neh, guarda che ti controllo”.

 

Il presidente americano ha ancora davanti a sé tutti interi e spessi e ostici i banchi della prova: l’Iran, l’Afghan-Paki-Irak, il Medio Oriente, bastino questi tre per non allungare pedantemente la lista. Ma anche i Nobel “ex-post”, consegnati cioè a cose fatte, hanno avuto le loro bizzarrie e infondatezze, se pensiamo a certe assegnazioni mediorientali o a Al Gore; sorprendente anche quello a Kofi Annan, segretario generale di una Onu davvero evanescente.

In realtà solo in pochissimi casi il Nobel ha premiato l’integrità o l’esemplarità di una vita; rarissimi sono stati i veri testimoni suggeriti al mondo come maestri da seguire, o almeno da onorare. Avendo rinunciato a Dio l’uomo moderno, colto, occidentale cerca di divinizzare qualche piccola o grande virtù umana, un abbraccio tra nemici, una sofferenza toccante, uno spettacolare cambiamento di idee o anche, molto più terra terra, una ideina che pare nuova, una speranza (e persino una speranziella, alla napoletana). Qualcosa che emozioni, che interrompa per qualche istante il circuito dell’inanità e dell’impotenza di fronte giganteggiare del male del mondo.

Il Nobel per la pace è il premio della formica contro l’elefante, della velleità contro la realtà, del sogno contro la storia. È un premio tristissimo, e anche se persone degnissime e straordinarie ne sono state insignite (Madre Teresa, Martin Luther King, Albert Schweitzer), non bisogna certo rammaricarsi che non sia andato a Giovanni Paolo II: una omologazione che avrebbe appiattito la sua figura “altra” e che tale deve restare.

 

Così con Obama si è forse voluto consacrare la vera e propria cascata di annunci (e dunque possono ambire anche tanti nostri governanti che hanno sostituito l’arte della politica con l’arte della retorica: per ogni questione c’è pronto un “piano”) caduta sull’opinione pubblica mondiale durante e dopo la sua campagna elettorale, e le speranze che ha suscitato in ogni dove, dagli homeless americani alle masse musulmane.

 

Il che non è in sé negativo o almeno non più che aver dato il Nobel a Yasser Arafat o Henry Kissinger. Sempre (e per fortuna abbiamo addosso questo istinto) la possibilità che accada qualcosa di nuovo rompe la barriera della rassegnazione, accende i sentimenti. Fuochi fatui? Il più delle volte sì, specie quando la capacità di giudizio rimane inattiva davanti al crepitare degli entusiasmi.

 

Ora tocca a Obama essere all’altezza di tante attese. Di sicuro noi desideriamo sinceramente che ci stupisca, ma con gli effetti speciali e non con gli speciali annunci.

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