A che serve il lavoro?

Il compito della politica oggi è quello di sostenere politiche per il lavoro e per l’occupazione che partano dal lavoro come risposta al desiderio di felicità dell’uomo

Qualche tempo fa sulle pagine del Corriere della Sera, in un’analisi in cui si descrivevano molto bene le distorsioni che hanno portato il mondo nella gravissima depressione economica odierna, Giulio Sapelli coglieva perfettamente quali sono state le vere cause e quale deve essere l’antidoto giusto per un vero rilancio dell’economia mondiale, un rilancio che non coincida semplicemente nel miglioramento temporaneo delle condizioni economiche di cittadini e stati, ma che sia un drastico cambiamento di prospettiva nella concezione del “fare soldi”.

 

La crisi deve aprire gli occhi a chi considera il mercato un mero strumento di fabbricazione del denaro, detto come Sapelli, “impersonale, anonimo e soprattutto perfetto”. Il nesso tra comportamento morale dell’imprenditore o del finanziere con il tornaconto economico deve tornare in primo piano, non perché il desiderio di ricchezza sia di per sé sbagliato o immorale, ma perché è stato proprio questo guardare solo al proprio tornaconto senza considerare l’aspetto umano del mercato e della finanza che ha prodotto l’attuale crisi. Non c’è una spiegazione più scientifica di questa. Non ci sono teorie economiche liberali o stataliste che tengano.

Nella nostra società l’idea che comunemente si ha del lavoro è di qualcosa che serve a fare i soldi. Il lavoro, al contrario, deve emergere come necessità di cambiare la realtà, di renderla più corrispondente a quelli che sono i bisogni dell’uomo, e anche occasione di cambiare sé. Infatti non si lavora veramente se non c’è un lavoro dentro il lavoro per approssimarsi, per avvicinarsi al Destino, cui è chiamato l’uomo attraverso la circostanza quotidiana. Da questo punto di vista non c’è reale differenza tra il lavare i piatti o fare il professore universitario perché ciò che definisce l’importanza di quello che si fa è la coscienza che si ha dello scopo.

Da parecchi anni ormai l’esecutivo europeo vede come priorità per un reale sviluppo economico la necessità di investire sui giovani, sulla ricerca e sull’innovazione, sollecitando i governi a mettere a disposizione risorse finanziarie per quella che viene chiamata la “strategia di Lisbona”. Le istituzioni politiche ed economiche dell’Unione stanno inoltre cercando giustamente di mettere in campo misure efficaci per restituire fiducia e stabilità ai cittadini europei.

 

Ma la difesa della capacità competitiva del nostro sistema economico, e quindi la capacità di produrre ricchezza, la capacità di creare sviluppo, di attivare occupazione passa attraverso questa diversa concezione del lavoro che vuole una riconquista della centralità dell’uomo.

 

Il compito della politica oggi è quindi quello di sostenere politiche per il lavoro e per l’occupazione che partano dal lavoro come risposta al desiderio di felicità dell’uomo. Il lavoro è uno strumento per la nostra felicità e che aiuta a manifestare quello che in ognuno di noi c’è. In questo modo sarebbe proprio nel lavoro che l’impegno del singolo può trovare una sua dimensione etica e quindi oltre che cercare giustamente la propria felicità si può guardare anche e soprattutto al bene del popolo di cui facciamo parte.

 

Educare al lavoro le nuove generazioni deve voler dire far capire che lavorare non è qualcosa a cui siamo costretti e chi è più furbo degli altri vince, ma al contrario deve essere concepito da ognuno come un contributo decisivo al bene del mondo.

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